LA BATTAGLIA DI VALIBONA
A.N.P.I. Lanciotto Ballerini
La STORIA e la NATURA
PERCORSO della MEMORIA
Il Parco naturalistico, ambientale e storico dei Monti della Calvana, si estende sulla media collina a NORD EST di Firenze, tra le Province di Firenze e Prato, è compreso fra il fiume Bisenzio e il torrente Marina. La specificità di questo luogo risiede nel suo essere parco naturalistico ambientale e storico.
LA RESISTENZA
Battaglia a Case di Valibona
Il Cippo all’interno dell’abetina ricorda l’avvenimento. Il traliccio elettrico del luogo, ha impresso nella sua struttura la testimonianza del furore della battaglia (passaggio dei proiettili), il “fienile – fortilizio” che ospitò i partigiani sono “Luoghi di Memoria” importanti. È doveroso per noi, cercare di realizzare un progetto, in cui collocare all’interno del fienile uno spazio attrezzato, di mappe, fotografie, testimonianze. Per ridar vita ai Luoghi dove l’eroico Comandante Lanciotto, insieme all’audace sardo Luigi e al russo Vladimir, donarono le loro giovani vite, per far esplodere quella luce che ha fatto nascere la primavera e che si chiama appunto, Resistenza.
“Questa località fu teatro di un glorioso episodio della Resistenza”.
(Test. Silvano Franchi)“Un gruppo partigiano di 17 ragazzi respinsero per ben tre volte l’attacco fascista alla loro postazione, un atto eroico, che rese fieri i giovani combattenti che li immolarono con le loro gesta fino alla Liberazione del Paese”. Si, Resistenza di Popolo. Ricordava il compagno Patriota Silvano Franchi detto “Morino”, combattente nella Formazione garibaldina “GIOVANNI CHECCUCCI”: – “Quei 17 ragazzi compirono un impresa unica. Impossibile non rimanere tutti schiacciati dalla fangosa orma fascista, erano completamente circondati da più di due compagnie, ma nonostante tutto, i partigiani di Lanciotto riuscirono a dominarle, resistettero e sfondarono con una caparbietà che fece da esempio in tutta la Provincia di Firenze, essendo quella LA PRIMA VERA BATTAGLIA COMBATTUTA SUL TERRITORIO”. Aprirono così una nuova stagione: “Noi ragazzi dell’epoca”, ricorda il “Morino” – “ci siamo riuniti e deciso di seguire l’esempio di Lanciotto, da quel momento nasce in ognuno di noi una forte determinazione ad entrare volontario nei partigiani per vivere l’azione, per levarsi di dosso l’immondizia tossica nazi-fascista, così nasce la 22a Brigata d’Assalto Garibaldi “Lanciotto Ballerini” un esempio di onore, di altruismo e caparbietà per tutta la durata della guerra”.)
L’antifascismo nelle Province di Firenze e Prato, fu una realtà sempre operante e con il quale il regime dovette fare i conti per tutto il ventennio.
“Un antifascismo radicato nelle fabbriche, nelle botteghe artigiane e nelle campagne tra i contadini e braccianti fino alla scuola, nelle università. Resistenza al potere di un regime che si era imposto con spregiudicata violenza, resistenza ad un potere politico che aveva soppresso il diritto di dissentire, associarsi, esprimersi, conculcando i diritti e la dignità dell’individuo, della persona singola ed associata, mediante la violenza fisica diretta e delle leggi. Resistenza ad una legislazione speciale applicata da un Tribunale Speciale che aveva comminate miriadi di condanne con la pretesa di impedire a uomini liberi di pensare mediante la privazione della libertà anche fisica. Resistenza ad un regime che aveva creato un’area d’arbitrio e di prevaricazioni, di privilegi, di soprusi, di spie alle quali era data ampia autorità di reprimere e calpestare l’altrui dignità”.
Dopo l’armistizio (capitolazione) del Settembre 1943, gli antifascisti decisero di organizzarsi, intuendo che la Patria era allo sbando e che le truppe tedesche avrebbero occupato l’Italia, coinvolgendola sul fronte di guerra.
I partiti antifascisti (Comunista e d’ Azione) decisero di organizzare la lotta di Resistenza. Vennero organizzate le S.A.P. locali e l’ 11 settembre 1943 con l’occupazione di Firenze da parte delle truppe tedesche, i comunisti decisero di far allontanare i più conosciuti, per evitare che fossero arrestati e di organizzare le Formazioni Partigiane “Garibaldi” in montagna (per creare azioni di guerriglia e di disturbo). A tale scopo, furono organizzate alcune riunioni in vari luoghi del territorio provinciale.
(test. Spartaco Conti) A Campi Bisenzio alla presenza dei compagni Gino Tagliaferri e Giuseppe Rossi del C.T.L.N. provinciale, avvengono due riunioni, il 12 e 13 settembre, dove parteciparono gli antifascisti locali che decisero di formare un Gruppo d’assalto “Garibaldi” da inviare in montagna. La sera del 15 settembre dalla casa colonica di Serafino Colzi, mezzadro antifascista, situata a Tomerello, all’imbrunire, i Patrioti di Campi risalendo l’alveo del T. Marina, si dirigono su M. Morello. Lanciotto Ballerini è il Comandante, il Commissario Politico è Ferdinando Puzzoli detto Novatore, il Vice Comandante è Primo Verniani detto Buttallaria, con loro ci sono Renzo Ballerini, Guglielmo Tesi, Alberto Querci, Corrado Bernardi, Marcello Tirinnanzi, e altri antifascisti locali, circa 10/12 Patrioti pronti a iniziare la lotta di Resistenza per la Pace, la Libertà e la Giustizia sociale.
A M. Morello le prime Formazioni “Garibaldi” operavano nel cuore della montagna. Il Gruppo comandato da Lanciotto, era accampato alla Corte di Querciolino (sopra il ristorante Vecciolino) la base per i contatti era la bottega di Morello, i cui titolari erano in stretta collaborazione con la formazione partigiana. Operavano tra la Collinella e Ceppeto ed altre località, col comando in un secondo momento trasferito al Chiesino del Cupo. La stessa area era controllata da un altro Gruppo di Sesto Fiorentino, comandato da Giulio Bruschi, detto Berto, un Patriota attivo condannato dal Tribunale Speciale, che aveva maturato nel carcere tempra inflessibile, un terzo gruppo del “Bini” detto Folgore era accampato nella zona delle Cappelle di Ceppeto. In quei giorni le prime squadre partigiane che si costituiscono, sono vari gruppi isolati ed eterogenei composti da patrioti, ex prigionieri, militari italiani, renitenti alla leva. L’attività delle formazioni partigiane si realizzava in attacchi, agguati e sabotaggi per procurarsi armi e danneggiare le linee di comunicazione dell’occupante nazi-fascista, inoltre tramite staffette inviavano e ricevevano informazioni (coaudivati dalle S.A.P. cittadine), dei movimenti e la posizione delle truppe nazi-fasciste. Da Firenze e dai Comuni limitrofi arrivavano aiuti materiali, informazioni, ordini e disposizioni. Dopo circa tre mesi e mezzo di base su M. Morello, a fine dicembre, la Formazione Partigiana ebbe l’ordine dal C.T.L.N. di spostarsi, poiché era imminente un rastrellamento in forze da parte dei nazi-fascisti, i quali avrebbero accerchiato la zona di M. Morello da quattro direzioni e cioè: da Vaglia, da Legri, da Sesto Fiorentino e da Calenzano.
Quindi, decisero di staccarsi in due reparti, il primo guidato dal Bruschi, si trasferì su M. Giovi e poi nel Pratomagno, l’altro guidato da Lanciotto Ballerini, composto da circa una quarantina di partigiani, tentò di raggiungere le montagne del Pistoiese, attraversando i monti della Calvana. Lanciotto dopo aver ricevuto gli ordini, incaricò Ted, (capitano inglese dell’esercito indiano, ex prigioniero di guerra) di trasportare, con circa una ventina di partigiani del materiale bellico (tritolo) al Comitato Militare Toscano e di prelevare armi e munizioni, fatto ciò, avrebbero dovuto ricongiungersi con il resto del Gruppo in Calvana. Altri tre partigiani del gruppo, i F.lli Fiorelli Egidio e Silio e Galeotti Giuseppe detto Uragano, scesero a Sesto Fiorentino per recuperare delle scarpe e per ricevere istruzioni.
In quei giorni decisero di chiamarsi “Lupi Neri” avente come stemma nella bandiera da combattimento: un lupo nero in campo rosso con le fauci spalancate. Il Gruppo d’Assalto Garibaldi “Lupi Neri”, Comandato da Lanciotto, in attesa del ritorno dei compagni, si ferma alcuni giorni in Calvana, ospitato dai mezzadri della zona in un fienile a Case di Valibona.
Il Gruppo “Lupi Neri” era discretamente armato con un fucile mitragliatore “Breda”, tre o quattro bombe a mano ciascuno, moschetti individuali con diversi caricatori e varie pistole. Lanciotto mentre era in attesa, faceva perlustrare la zona e stabiliva contatti, sia per i rifornimenti, sia per avere informazioni sulle zone che avrebbe dovuto attraversare in spostamento verso il M. Javello e verso il Pistoiese (zona Abetone), per unirsi alla 1a Brigata Rosselli, comandata dal Ducceschi detto Pippo. (cit. odierna. Testimonianza video di Leandro Agresti. “Prima che Lanciotto partisse per il trasferimento, passo a salutare i compagni”, Leandro ricorda questo incontro, “il 26 dicembre venne a salutarmi, il comandante Lanciotto ebbe l’incarico di trasferirsi su M. Javello per risolvere questioni di incomprensioni tra due gruppi del pratese che tra di loro avevano avuto dei diverbi. La sua conoscenza militare e disciplina sarebbe stata utile alla riorganizzazione della formazione partigiana dell’area pratese.) A notte fonda la formazione scese da Monte Morello attraversò la strada militare barberinese, guadando il torrente Marina risalgono la Calvana in formazione fino a Case di Valibona, la mattina del 27 dicembre 1943 presero contatto con i coloni della zona, che concessero ospitalità nel caldo e ben strutturato fienile.
Nella notte fra il 2 e il 3 gennaio 1944, il gruppo di 17 partigiani giovanissimi, (12 italiani, 5 ex prigionieri, due russi, uno dei quali era un Tenente dell’armata rossa, due slavi e un capitano Inglese), che stava riposando nel Fienile del Lastrucci a Case di Valibona, a seguito di una delazione, fu circondato, risalendo la Calvana da due diverse direzioni, da la Briglia di Vaiano e da Secciano di Calenzano, da numerose e organizzate forze fasciste (circa 150/200 militi): la milizia volontaria della Muti, alcuni esponenti della banda Carità, una formazione della guardia repubblichina, al comando di Duilio Sanesi comandante del presidio di Prato, i carabinieri, i fascisti dei Comuni limitrofi, reparti agguerriti, ben armati ed equipaggiati. I Partigiani vennero attaccati al crepuscolo. La zona della Calvana era difficile da controllare e loro in quel momento erano solo 17 giovani, ma il soldato russo Mirko, svegliatosi per un bisogno si accorge del nemico e avverte Lanciotto. La battaglia divampò per alcune ore (circa tre e mezza). Il Comandante Lanciotto Ballerini (alla cui Memoria venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare) si sacrificò per permettere agli altri compagni di salvarsi e cadde combattendo, insieme al sardo Luigi G. Ventroni addetto al fucile mitragliatore “Breda”.
Dopo la battaglia sul terreno dell’aspro scontro a fuoco, rimangono i corpi senza vita del Comandante Lanciotto Ballerini e del sardo Luigi G. Ventroni e rimane a terra ferito gravemente Loreno Barinci, intorno vi sono i feriti e i corpi senza vita dei nemici (circa 4 morti e diversi feriti, circa 12/16, per una ferita alla gamba dopo dieci giorni d’agonia in Ospedale a Prato morirà Duilio Sanesi, capo della spedizione fascista.
I fascisti catturano cinque partigiani, legano ad un tronco Vladimir, Tenente dei genieri dell’Armata Rossa dopo le percosse gli sparano in bocca uccidendolo, a Mario Ori gli sparano ad un braccio, a Tommaso Bertovich a colpi di calcio di fucile gli spaccarono la testa, Corrado Conti e Benito Guzzon sono percossi selvaggiamente, tutti dopo le intimidazioni e le sevizie vengono in tarda serata consegnati ai tedeschi alla Fortezza da Basso. Loreno Barinci, rimane lasciato a terra creduto morto, viene catturato il giorno dopo, gli altri nove partigiani sono riusciti a rompere l’accerchiamento ed a trovare riparo in direzioni diverse. Per punire i contadini dell’ospitalità data ai partigiani, i fascisti bruciarono e saccheggiarono tutte le case di Valibona, raggrupparono i vecchi, le donne e i bambini compresa una donna incinta, che furono strattonati e spinti a percorrere a piedi scalzi e con pochi vestiti il sentiero che portava a La Briglia, poi vennero caricati su carri e condotti alle carcere del Castello dell’Imperatore di Prato, Vennero consegnati ai tedeschi i tre coloni adulti sospettati di favoreggiamento che vennero condotti alla Fortezza da Basso a Firenze.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei lager dove furono sterminati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione. P. Calamandrei
Nella Piana, si udirono i combattimenti, e giunse la sventurata notizia ai familiari di Lanciotto e alla giovane moglie Carolina Cirri. Le autorità fasciste, sotto la pressione del podestà, (preoccupato perché gli animi delle genti si stavano infiammando) dopo cinque lunghi giorni concedono il permesso di recarsi a Valibona, al padre e ai fratelli di Lanciotto, per recuperare il corpo del loro congiunto. La salma del Comandante viene trasportata a Campi Bisenzio, nella sua casa, in Via S. Giorgio al numero 10. Quando il camion con alla guida Fiorenzo Fratini arriva nella via, una folla commossa gli si stringe intorno accogliendo l’eroe partigiano. I fascisti cercarono di imporre il trasporto della salma al cimitero a mezzanotte, senza bara, e vietarono al priore Don Conti della parrocchia di S. Lorenzo d’accogliere la salma in chiesa. Lanciotto anche da morto incute paura ai fascisti, i quali cercano di impedire una partecipazione di massa alle esequie. All’ora del trasporto i fascisti formarono un cordone intorno a via S. Giorgio, in molti riuscirono a evitare il controllo ed a passare dal retro dell’abitazione (anche la cassa funebre fatta preparare a Sesto Fiorentino), gli amici di sempre rendono omaggio al loro valoroso compagno. Il corteo funebre è vietato, ma i nazi-fascisti non poterono impedirlo, la piazza era piena di gente, di persone che volevano salutare l’amico fraterno Lanciotto. Ad attendere la salma di Lanciotto Ballerini al Cimitero comunale quel Sabato 8 Gennaio 1944, – “C’era il mondo” – ricorda Carolina Cirri, la moglie – “un’incredibile folla di persone commosse con tanti fiori rossi,” – tanti i partigiani armati scesi dalle montagne, molte le corone di fiori, i patrioti, gli antifascisti rendono omaggio al comandante partigiano. A dispetto delle minacce fasciste Don Conti celebra il rito funebre. I fascisti non hanno il coraggio di intervenire.
Comandante ucciso in battaglia
Decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare
“Comandante dal Settembre 1943 della Prima Formazione Garibaldina Toscana, la guidò valorosamente per quattro mesi nelle sue molteplici azioni di guerra. Con soli 17 uomini affrontavano preponderanti forze nemiche, dopo aver inflitto fortissime perdite, si da costringerle a ritirarsi in posizioni retrostanti, assaliva arditamente da solo, a lancio di bombe a mano, l’ultima posizione che ancora minacciava la sorte dei suoi uomini. Cadeva, nel generoso slancio colpito in fronte dal fuoco nemico.”
Nato a Campi Bisenzio il 15 agosto 1911 in casa di antifascisti. D’indole piuttosto indipendente, religioso e insofferente di fronte alle ingiustizie, di costituzione robustissima e alto di statura. Lanciotto da giovane praticava vari sport, era un talento nella Boxe. Dopo gli obblighi di leva congedandosi nel 1932, fu richiamato alle armi per la guerra d’Africa dalla quale tornò con una decorazione al valor militare e il grado di caporalmaggiore. Al ritorno dall’Africa, il 5 aprile 1937, Lanciotto sposa Carolina Cirri. Dalla quale ha avuto una bambina, che dovette lasciare ad appena 11 mesi di età, per rispondere al secondo richiamo alle armi, questa volta per il fronte albanese poi per il terzo il fronte greco e iugoslavo. Molte le testimonianze, una in particolare quella del fratello Vittorio che era insieme a Lanciotto in Iugoslavia, il quale parlando con i figli ha raccontato il vissuto della guerra. “Lanciotto, quando era in Iugoslavia, durante la sera spesso si allontanava di nascosto dal campo della Divisione in bicicletta e andava ad avvertire i paesi e i villaggi che all’indomani sarebbe passato l’esercito italiano fascista e che avrebbero subito un attacco indiscriminato. – Riuscì a dare la possibilità di sopravvivere a centinaia di donne, bambini ed anziani che trovarono rifugio in altri luoghi – . Vittorio gli diceva: – Lanciotto hai famiglia, se ti scoprono ti uccidono. Non posso vedere uccidere persone innocenti – rispondeva Lanciotto: – Pensa ai nostri familiari, se si trovassero loro, nelle stesse situazioni….. – Tanto Lanciotto era conosciuto dai partigiani di Tito della zona, che Vittorio ebbe salva la vita, – racconta che si era allontanato dal reparto per avvicinarsi ad un torrente (…gli piaceva tanto pescare) ma da una boscaglia uscirono i partigiani, – sono morto! Penso! – …. ma uno di loro riconobbe la somiglianza con Lanciotto e grido in slavo: – Fratello, fratello. Lo riconobbero come fratello di Lanciotto, quello che aveva salvato con le sue informazioni tanti loro familiari.
Lanciotto aveva maturato da tempo la sua scelta di campo, quella di rifiutare una guerra e di combattere chi la propaga.
Al momento dell’ 8 settembre 1943 all’età di 32 anni, Lanciotto è a Firenze assegnato all’84° reggimento fanteria. Mentre era ricoverato in Ospedale, decise di tornare a casa. In quei giorni frenetici, bisogna organizzarsi, darsi da fare. I Ballerini, il Puzzoli, il Conti, gli antifascisti locali mettono in atto in clandestinità un cordone di sicurezza intorno alla loro comunità. Lanciotto insieme con altri patrioti locali, entrano in azione in quei primi giorni di ribellione, assaltando un carro armato guidato da “camicie nere” che transitava nell’Osmannoro, presso la località detta “Casa Bianca” (nucleo di case vicino alla motorizzazione). Dopo aver fatto correre a gambe levate i carristi disarmandoli, resero inutilizzabile il carro prelevando tutto ciò che poteva essere utile, i proiettili, le armi e la mitragliatrice che era sopra al carro. Così Lanciotto si procurò la prima mitragliatrice che portò con sé in montagna. La sera del 15 settembre 1943, è al Comando del Gruppo d’Assalto “Garibaldi” locale, che fa base sul M. Morello.
Partigiano ucciso in battaglia . militare
Luigi Ventroni, partigiano sardo di Oristano classe 1922. Il suo corpo fu ritrovato semi-carbonizzato dall’incendio del fienile, dal quale col suo fucile mitragliatore “Breda” aveva tenuto a bada gli assalitori fascisti, almeno, finché aveva avuto le munizioni a disposizione, consentendo ai compagni di disimpegnarsi per rispondere all’attacco da posti diversi.
Tenente dell’Armata Rossa
Ucciso di fascisti dopo la battaglia
Di lui il ricordo di protagonista, un esperto e deciso compagno, a Valibona a causa di un piede malandato, non è in perfette condizioni. Viene catturato dai fascisti legato ad un tronco d’albero e ucciso con un colpo di pistola in bocca.
Commissario Politico
Nato a Reggello l’8 ottobre 1892. Nel 1915 è già schedato come anarchico dalla prefettura di Firenze, è corrispondente di vari giornali anarchici. Nandino negli anni “Venti” si sposa e torna a Campi, lavora gestendo una vecchia osteria. Ferdinando è un esempio di solidarietà, durante tutto il “ventennio fascista”, si sente in dovere di lottare contro l’oppressione. Non tollerava di veder bastonare la gente ed ha sempre combattuto contro le ingiustizie. Perseguitato dal Tribunale Speciale, è arrestato, ogni qual volta arriva qualche personalità ufficiale a Firenze, ben 48 volte. A Campi alla caduta del fascismo (25 luglio 1943), l’antifascismo locale si riorganizza intorno a due figure fondamentali: i comunisti Spartaco Conti e Ferdinando, i quali insieme ai tanti antifascisti locali, organizzano la lotta di Resistenza. Il 15 settembre con il nome di battaglia “Novatore” è impegnato in montagna. Dopo la battaglia di Valibona continua la sua attività come membro del C.T.L.N. locale. Nel maggio 1944, viene arrestato e portato a Villa Triste dove lo torturano e gli estraggono sette denti, riesce ad evadere dalle Murate in giugno e continua l’attività patriottica fino alla Liberazione di Campi Bisenzio. Nandino è il primo Presidente della sezione’A.N.P.I. locale, un Patriota antifascista, protagonista della rinascita democratica del Paese.
Soldato Russo
Un ucraino, era una persona molto triste e malinconica, era convinto che sarebbe morto.Dopo Valibona di lui, non si è saputo più nulla. Era riuscito anche lui ad uscire dall’accerchiamento, si presume che sia sfuggito ai nazi-fascisti che continuarono a rastrellare l’area per diversi giorni.
Capitano Inglese
Nato ad Edzel (Scozia) il 17 dicembre 1915 , Capitano dell’Esercito Inglese, evaso dal campo di prigionia PG49 di Fontanellato, in provincia di Parma, dopo essere stato ospitato a Migliana da alcuni contadini insieme con altri suoi connazionali, si aggrega alla Formazione Partigiana Comandata da Lanciotto Ballerini. Stuart Hood con il nome di battaglia “Carlino” è un intellettuale sensibile che lotta per gli ideali in cui ha sempre creduto. Stuart Hood ha scritto e pubblicato i ricordi della sua drammatica esperienza italiana. Uomo di cultura e di grande affabilità è cittadino onorario del Comune di Campi Bisenzio dal 1990.
Soldato Jugoslavo catturato
E’ di Ogolin ed ha appena 20 anni. Dopo l’8 settembre riesce a fuggire dal carcere delle Murate e si aggrega alla Formazione Partigiana di Lanciotto a Monte Morello. E’ ricordato come un ragazzo grosso e forte, capace di portare pesi eccezionali. Dopo la battaglia fu catturato dai fascisti che con i calci di fucile gli spaccarono il capo e lo percossero selvaggiamente, poi venne consegnato ai tedeschi alla Fortezza da Basso. Le botte ricevute alla testa lo portano ad essere un infelice, “in cella “ – ricordano i compagni – “accusava forti dolori alla testa e urlava dal dolore che lo faceva impazzire”. Dopo la Liberazione di Firenze con una pistola decide di togliersi la vita.
Partigiano ferito, catturato
Nato a Sesto Fiorentino il 22 luglio 1924, proviene da una famiglia numerosa di dieci figli. Il padre antifascista, non trovava lavoro, fin dalla prima infanzia Loreno va a lavorare alla Pignone. “Sono anni difficili”, un giorno assistette al pestaggio di un “sovversivo”, una brutale aggressione, che lo convinse ad impegnarsi insieme con altri lavoratori antifascisti a “portare volantini”. Al momento del richiamo alle armi, ha già la convinzione di darsi “alla macchia”. L’8 settembre Loreno si trova in galera a causa, della divisa militare, proprio non la sopporta. Al momento della diserzione generale anche il Barinci ritornò a casa. Il 18 settembre entrò nella formazione partigiana che si era costituita su M. Morello, dove conobbe Lanciotto. Durante la battaglia rimane colpito da due proiettili, uno gli sfonda la scatola cranica. Rimane a terra ferito gravemente, creduto morto. Viene arrestato il giorno dopo. Maltrattato dai fascisti, viene poi sballottato in vari Ospedali. All’inizio di Agosto del ‘44, evade dalle Murate e partecipa alla Liberazione di Sesto Fiorentino.
Partigiano catturato e ferito
Fiorentino, antifascista, abita in via Ghibellina, amico del Tagliaferri è il più anziano del gruppo ha 52 anni. Catturato dai militi fascisti, che dopo averlo maltrattato gli sparano ad un braccio. Dopo le sevizie è consegnato ai tedeschi alla Fortezza da Basso, due mesi prima della Liberazione di Firenze riesce a fuggire ed a continuare la lotta unendosi alle SAP cittadine dove operava suo figlio.
Partigiano
Nato a Campi Bisenzio, il 26 genniaio 1925 proviene da una famiglia operaia, il padre è un comunista. Dopo le scuole di regime il giovane Guglielmo è andato a lavorare in filatura dal Pecci di Prato. Guglielmo è un giovane di Campi che dopo la visita di leva, ha deciso di seguire l’amico Lanciotto. il suo nome di battaglia è “Teotiste” che è il nome di sua madre. Dopo la battaglia di Valibona, il partigiano diciannovenne continua la Lotta di Resistenza con il fratello di Lanciotto, Renzo a M. Giovi con il ricostituito Gruppo partigiano denominato “ Lanciotto Ballerini”. “Teotiste” il 17 aprile 1944 rimane intrappolato in un rastrellamento, dalle parti di Pomino, dove fu ucciso insieme ad un’altro giovane partigiano.
Partigiano catturato
Nato a Sesto Fiorentino con il nome di battaglia “Ciccio La Rosa”. Fu catturato dai carabinieri a Valibona, consegnato ai fascisti che cercarono con percosse e torture di avere informazioni, venne poi consegnato ai tedeschi alla Fortezza da Basso. Finì in Carcere alle Murate con gli altri partigiani del gruppo e con i quali poi evase prima della Liberazione di Firenze. Ha partecipato arruolandosi nella Divisione Cremona del C.V.L., partecipando ai combattimenti per la Liberazione di Alfonsine.
Partigiano Jugoslavo
Partigiano Iugoslavo, classe 1925 con il nome di battaglia “Toni”. Riuscì a sfuggire all’accerchiamento di Valibona e si aggregò ai partigiani pratesi della zona di Galciana, dove continuò la lotta di resistenza fino alla Liberazione, a fine guerra rientrò in Patria.
Partigiano
Di Afragola, il suo accento napoletano gli è valso due nomi di battaglia “Vesuvio” e “Napoli”. Si dice, che era un uomo eccezionale. Si sa che era arrivato a Monte Morello a piedi dalla Francia. Aveva un senso straordinario dell’orientamento, nel bosco rompeva un rametto, prometteva che al ritorno sarebbero ripassati di là e così avveniva. Insieme agli altri compagni che erano riusciti a ritirarsi dall’accerchiamento rientra a Sesto Fiorentino e si unisce ai compagni, rientrando in formazione.
Partigiano
Nato a Sesto Fiorentino, dopo la Battaglia di Valibona, ha continuato la lotta di Resistenza con il Gruppo partigiano Comandato dal Bruschi a Monte Giovi, a fatto parte della 22a Brigata Lanciotto Ballerini fino alla Liberazione di Firenze. Si è distinto per un atto eroico anche durante la battaglia di Firenze ricevendo una decorazione di Medaglia d’Oro al Valor Militare dagli Alleati anglo-americani. Le motivazioni, per la sua agilità ed esperienza nello snidare franchi tiratori nemici appostati all’interno di un cimitero. Dalla testimonianza di Silvano Franchi detto Morino Partigiano combattente della 22a Brigata Lanciotto Ballerini: – Gli Alleati che avevano subito varie perdite a causa di quei maledetti cecchini, pur avendo cercato di neutralizzarli non erano riusciti a stanarli, allora vennero da noi della Brigata Lanciotto, a chiedere se qualcuno si offriva volontario per la missione. Vandalo si fece subito avanti, a carponi riuscì ad entrare all’interno del luogo, appostandosi e spostandosi di lapide in lapide, in quel modo uccise tre nazisti, altri sei o sette poco dopo si arresero. Fu uno spettacolo vedere uscire questo giovane da solo con i tedeschi disarmati e con le mani in alto.
Partigiano catturato
Nato il 26 aprile 1926 a Sambellino in provincia di Rovigo. Dopo l’8 settembre lascia le sue zone del nord, per raggiungere i partigiani che si stanno organizzando sull’Appennino, deciso a combattere i nazifascisti. Si unisce alla Formazione Comandata da Lanciotto. A Valibona viene catturato e torturato dai fascisti e poi consegnato ai tedeschi. Evade dalle Murate, prima della Liberazione di Firenze. Dopo la Liberazione di Firenze, si arruola nel C.V.L.
Partigiano
Nato a Trapani il 27 marzo 1924, di famiglia umile. L’8 settembre si trovava a Firenze, sorpreso dallo sbandamento dell’esercito, tenta di ritornare a casa, ma non ci riesce, è indirizzato su Monte Morello dove incontra Lanciotto. Il suo nome di battaglia è “Rosolino” in ricordo di Rosolino Pilo, il rivoluzionario siciliano, che aveva guidato l’insurrezione di Palermo del 1848. Dopo Valibona, passa “il Fronte”, si arruola nel C.V.L. e continua la guerra di Liberazione.
Partigiano
Nato il 26 dicembre 1926 ad Anguillara Veneta in provincia di Padova, ha scelto la lotta partigiana insieme all’amico Guzzon, entrambi provengono da famiglie antifasciste. Dopo Valibona torna nelle sue zone, dove con altri patrioti formano la Brigata partigiana “Bruno Ruttoli” e continua la guerra di Liberazione.
La Battaglia di Valibona
I Combattenti della Formazione Partigiana d’Assalto Garibaldi “Lupi Neri“
Lanciotto Ballerini – Comandante Partigiano, ucciso in battaglia
Vladimir – Tenente Russo catturato e ucciso
Luigi G. Ventroni – Soldato, Partigiano ucciso in battaglia
Loreno Barinci – Partigiano ferito, catturato, maltrattato
Tommaso Bertovich – Soldato Jugoslavo catturato, torturato
Corrado Conti – Partigiano catturato, torturato
Mario Ori – Partigiano catturato e ferito
Benito Guzzon – Partigiano catturato, torturato
Stuart Hood – Capitano Inglese
Matteo Mazzonello – Partigiano
Mirko – Soldato Russo
Ciro Pelliccia – Partigiano
Antonio Petrovich – Soldato Jugoslavo
Ferdinando Puzzoli – Commissario Politico
Danilo Ruzzante – Partigiano
Guglielmo Tesi – Partigiano, caduto a Pomino il 17 marzo 1944
Vandalo Valoriani – Partigiano
Dopo la battaglia, Valibona, resta una tappa fondamentale della Resistenza in Toscana, la figura del comandante partigiano Lanciotto Ballerini diviene il simbolo della speranza di riscatto incarnata da tutto il movimento di lotta per la Liberazione. In ricordo del Comandante nasce la 22 a Brigata d’Assalto Garibaldi “Lanciotto Ballerini”. Nel maggio 1946, con le varie testimonianze raccolte, è concessa alla Memoria di Lanciotto Ballerini la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Testimonianza di Ferdinando Puzzoli
Commissario Politico del gruppo partigiano
L’accerchiamento di Valibona, frutto della delazione di spie fasciste, dimostrò di quale tempra erano forgiati i nostri uomini. Eravamo 17, dodici italiani, due sovietici, due slavi e un capitano dello Stato Maggiore inglese, ex prigionieri fuggiti dal carcere o da campi di prigionia. Il 3 Gennaio 1944 – Alle sei del mattino, noi dormivamo in un fienile di muratura adiacente a tre case coloniche, raggruppate in località Valibona. Ad un tratto mi sento violentemente scuotere un il braccio. E’ il sovietico Mirko che montava la guardia e che, con voce emozionata, mi dice – Commissario siamo accerchiati! Tanti e tanti fascisti con mitraglie in pieno assetto di guerra -. Mi alzo, scuoto Lanciotto e gli riferisco l’accaduto ed egli silenziosamente si alza. Mi rivolgo sottovoce al sovietico e gli dico che svegli tutti gli uomini. Il sardo Ventroni, addetto al fucile mitragliatore, piazza la sua arma verso l’entrata del fienile. Le nostre armi erano moschetti con circa dodici caricatori ciascuno e una sessantina di bombe a mano, rivoltelle ed un fucile mitragliatore “Breda”. Prendo il moschetto e mi avvio verso l’ingresso del fienile seguito da Lanciotto che invita tutti gli altri a seguirci. Alle prime luci dell’alba, un’alba fredda di gennaio, una voce dal di fuori con tono autoritario grida: – Arrendetevi, o sarete tutti morti -. Per tutta risposta, Lanciotto ordina al sardo Ventroni di aprire il fuoco con la mitragliatrice. Tutti gli uomini stesi a terra all’entrata del fienile sparano con il moschetto. Lanciotto, con un salto, ha scavalcato l’entrata del fienile e del cancello. Lancia bombe, Rosolino (Matteo Mazzonello) salta anche lui per seguirlo. Gli ordina di rientrare. Fra una pioggia di proiettili che fischiano rabbiosamente, i due rientrano. Con la coscienza della drammatica situazione in cui ci trovavamo, Lanciotto grida rivolto a me – Tu tieni forte costi, io vado in fondo al fienile a scardinare la porta laterale -. In quel momento una bomba scoppia nel retro del fienile con un fracasso infernale. Dopo qualche attimo Lanciotto dotato di una forza non comune, riesce a scardinare la porta e con voce ferma grida: Scendete tutti, giù! Venite presso di me. Rimanga solo il sardo con il bipiede. Portatemi tutte le bombe disponibili -. Gli uomini hanno un attimo di indecisione, sono pallidi, comprendono la lotta impari da affrontare. Egli intuisce quell’attimo di indecisione e grida – Fai scendere tutti e a chi non vuole sparagli -. Mi rivolgo ai compagni dicendo loro: – Avanti ragazzi, scendiamo tutti -. Allora tutti scendono, portando le bombe, e Lanciotto se ne riempie le tasche e la camicia gridando – Al mio ordine uscite tutti, sparate calmi e risparmiate le munizioni. Tentiamo di rompere l’accerchiamento -. Con rapidità fulminea scaraventa la porta lanciando bombe fuori. Quindi usciamo tutti dietro a lui. Scorgiamo gruppi di nemici fuggire. Guidati da Lanciotto giungiamo dietro al fienile. A balzi attraversiamo una piccola aia per raggiungere un fosso laterale ed un secondo fienile. Sparano. Sparano con la mitragliatrice. A questo punto Lanciotto vede circa cinquanta guardie “repubblichine” con i mitra imbracciati che scendono dalla collina verso di noi. Con voce tonante grida: – Tutti dietro a me. Avanti ragazzi! -.
E con una bomba in bocca ed una in mano si slancia verso i nemici lanciando bombe in mezzo ad essi con una velocità eccezionale e con una precisione eccelsa gridando: – Squadra “A” a destra, fuori le mitraglie pesanti. Squadra “B” a sinistra, fuori i mortai d’assalto -. Siamo uno contro cinquanta. Ma i nemici sono terrorizzati e si sparpagliano in fuga disordinata, inseguiti dai nostri colpi. L’accerchiamento era rotto verso Est, ma nessuno di noi, trascinati dall’audacia di Lanciotto, sentì la voglia di fuggire. Lanciotto in testa raggiunse il comandante della formazione nemica e in una lotta corpo a corpo lo investe come un uragano, colpendolo alla testa con il calcio della rivoltella e gettandolo a terra. Vandalo, partigiano di vent’anni di Sesto Fiorentino, spara cantando Bandiera rossa, Tesi Guglielmo, Barinci Antonio e tutti gli altri compagni si battono con furia. Ai nemici giungono continuamente rinforzi. Il fuoco accelerato delle armi automatiche ed il miagolio caratteristico delle pallottole fende l’aria. Sembra trovarsi avvolti in una bolgia infernale. Lanciotto, ritto, come sfida alla morte, si lancia verso una mitraglia nemica per catturarla. Ma, a circa dieci metri da essa è colpito da una raffica e rimane fulminato, sono circa le nove e la lotta continua impari.
Testimonianza di Loreno Barinci
Partigiano combattente
Mentre Lanciotto mi gridava di stare basso, altrimenti sarei stato “beccato”. Quando finalmente gli fui vicino mi disse: – Guarda, se riesco a prendere quella mitragliatrice, forse riusciamo a farcela, e si slanciò generosamente avanti. Era il mio primo combattimento. Dopo pochi istanti sentii la voce di Lanciotto: – Ohi, mamma! mi hanno preso – e lo vidi cadere a terra. A mia volta gridai: – Ragazzi, ragazzi hanno colpito Lanciotto, ma non finii la parola, perché anch’io in quel momento caddi colpito al viso. Da allora non capii più bene, anche se riuscivo a sentire perfettamente gli spari che ormai continuavano da un bel pò di tempo.
Testimonianza di Ferdinando Puzzoli
Commissario Politico
Il sangue scorre e le munizioni stanno per finire. I fascisti sentono che sono vicini alla vittoria e poi sentono che abbiamo cessato di sparare. Sentiamo che gridano – Avanti, cosa aspettiamo, non hanno più munizioni -. Ma forse la loro viltà ed il nostro comportamento non danno loro il coraggio di avanzare. Il terreno è sparso di morti. Il capitano inglese Carlino, a circa trenta metri dietro di me, mi grida: – Nando indietro, altrimenti ci catturano -Ordino la ritirata e faccio passare avanti tutti. Mi sento come inchiodato al terreno. Vorrei portar via Lanciotto. Il mio più caro fratello e compagno adorato. Ho il cuore infranto. E’ stato il più grande dolore della mia vita. Vandalo e Guglielmo mi tirano per le braccia. Raggiungiamo la cima, scollinando verso Vaiano inseguiti dalle raffiche di mitra. So che i fascisti sfogarono la loro libidine di sangue sui feriti e contro le famiglie di coloni dando tutto alle fiamme dopo uno spietato saccheggio.
Testimonianza di Stuart Hood
Partigiano detto Carlino, Capitano dell’esercito Inglese.
Sarebbe troppo lungo narrare l’intera storia della mia vita e come mi sono ritrovato nel dicembre 1943 sulla Calvana. Non credo nel destino secondo le leggi dell’oroscopo e dei segni zodiacali o nell’idea secondo la quale le nostre vite sono tutte predestinate fin dalla nascita, ma accetto il fatto ovvio che noi tutti siamo nati in seno ad una società particolare che ci ha formato, invitandoci ad accettare l’ideologia dell’essere “naturale” e l’importanza del “senso comunitario” e per questa ragione non si può discutere.
Il motivo che mi ha spinto verso la Calvana è stata la ribellione contro i principi sociali che mi hanno circondato quando ero un adolescente. Proprio per questo è più indicato che io descriva alcuni dettagli della mia infanzia e gioventù.
Mio padre un giovane lavoratore che ha conseguito la laurea dopo anni di duro lavoro era il Direttore di una piccola scuola in un piccolo paese in Scozia che abbandonammo più tardi per stabilirci in una cittadina di pescatori dell’Est dove io sono cresciuto. In termini sociali sono nato in un clima piccolo borghese, assorbendo l’etica del Protestantesimo e la tradizione scozzese di egualitarismo. La mia famiglia però, non ha mai messo in discussione questo tipo di società nella quale noi occupavamo un posto sicuro anche se eravamo lontani dall’essere considerati dei ricchi. Era una cosa certa il fatto che io avrei dovuto studiare e seguire le orme di mio padre nell’insegnamento. Di politica non si discuteva molto a casa. La politica era qualcosa che andava avanti con il mondo, qualcosa adatto alle altre persone e non per noi.
Quando cominciai a frequentare l’università di Edimburgo ero ignorante e totalmente indifferente verso i problemi politici. Tutto questo cambiò nel corso dei quattro anni di studi che mi portarono a conseguire la laurea in Letteratura. In questo periodo studiai molta letteratura italiana scoprendo Dante e Boccaccio. Ero infatti (senza saperlo) coinvolto e affascinato dai cambiamenti che la lingua italiana aveva avuto nel corso dei secoli e queste curiosità sarebbero rimaste per sempre nella mia vita. Un’altra scoperta importante furono i libri di Marx che lessi con molto interesse e che segnarono la prima tappa del mio ingresso nella politica di sinistra. I miei giorni da studente risentirono della crisi economica e della depressione degli anni Trenta, della disoccupazione e della povertà, della guerra civile in Spagna e del sempre più incalzante potere del Fascismo che il governo britannico era contento di non ostacolare. Questi erano alcuni dei fattori importanti ‑ un altro fu la quasi totale mancanza di una opposizione da parte del partito Laburista ‑ che mi spinse a diventare un membro attivo della Lega dei Giovani Comunisti ed il partito Comunista era coinvolto nel sindacato ferroviario. In questo periodo lessi il libro di Gaetano Salvemini ‘Under the axe of fascism” rendendomi conto della natura del regime, imparando qualcosa sulla sorte dei fratelli Rosselli e per di più vidi che il governo britannico non voleva intervenire nella politica coloniale di Mussolini in Etiopia. Avevo sentito parlare molto del ruolo degli Italiani anti‑fascisti nelle Brigate Internazionali, in particolare riguardo alla battaglia di Guadalajara dove avevano combattuto le truppe di Mussolini. Così adesso ero certo che in Italia esistevano donne e uomini che si opponevano al Fascismo e che si preparavano a combatterlo.
Dopo la laurea conseguita nel 1938 cominciai ad insegnare al Ginnasio anche se ero pienamente cosciente che la guerra era alle porte in particolar modo dopo il trattato di Monaco. Nel 1939 iniziò la guerra. Svolgevo il lavoro di insegnante ma, nella primavera del 1940 mi licenziai e mi arruolai come volontario nell’esercito per combattere non al fianco del Re e del mio Paese o per l’Impero Inglese ma contro il Fascismo che stava imperversando non solo in Inghilterra ma in tutta Europa. La decisione di diventare un soldato prima come autista in una divisione corazzata, poi come comandante di plotone in Fanteria prima di diventare Capitano nel Corpo Generale d’Armata mi portò in Egitto. Nel lungo ed interminabile viaggio di andata verso il Medio Oriente, passando dal Capo di Buona Speranza portavo nello zaino una buona grammatica italiana, ed a Cape Town avevo comprato una copia di Pinocchio ed un volume di poesie di Giovanni Pascoli. Lungo le coste dell’Africa e del Mar Rosso lessi questi libri tante volte fino ad impararli a memoria, non sapendo ancora quanto la conoscenza dell’italiano mi sarebbe stata utile in futuro. Per la prima volta feci uso dell’italiano nell’Africa Orientale Italiana e in Abissinia. Da lì partii, andai in Libia, nel deserto, e venni catturato a Mersa Matruli in Egitto durante la ritirata, mentre le truppe del generale Rommel avanzavano verso El Alamein.Catturato dalle truppe italiane dopo due giorni nel deserto, senza cibo e acqua nel tentativo di incontrare le truppe inglesi, iniziò il mio pellegrinaggio attraverso varie prigioni, dai campi di prigionia della guerra: nella sabbia, nei bunkers, a bordo della nave da Tobruk a Benghazi fino (il mio primo volo in aereo) in Italia, a Lecce. Da qui le mie prigioni furono Bari, Chieti (dove il comandante aveva modellato la sua personalità seguendo quella del Duce) e alla fine il Campo PG 49 a Fontanellato di Parma, dove fui mandato come prigioniero ostinato e come cattivo esempio per gli altri. Nell’accampamento precedente avevo scritto a grandi lettere sul muro del mio letto a castello “Me ne frego” per un dispetto all’aiutante maggiore un fascista antipatico quando ispezionava le camerate. Nel campo di prigionia eravamo sorprendentemente ben informati, potevamo leggere i giornali e studiare i comunicati fascisti. Naturalmente noi seguivamo la battaglia d’Egitto, ma più interesse lo provavamo per il fronte russo e la battaglia di Stalingrado, per la quale sapevamo che se l’Armata Rossa fosse stata vinta dai Fascisti, la nostra prigionia si sarebbe prolungata nel tempo. (Oggi, purtroppo, ci dimentichiamo che siamo debitori verso il popolo russo per il loro sacrificio e coraggio). Dai carabinieri ricevevamo buone informazioni in cambio di un buon caffè proveniente dai pacchi della Croce Rossa, così che venimmo a sapere quasi subito che a Chieti, per esempio e nel nord c’erano grandi scioperi cominciati nella primavera del 1943. Una mattina all’alba nel luglio 1943 da una finestra del Campo PG 49 a Fontanellato di Parma, vidi un giovane soldato andare nell’ufficio del comandante, prendere il ritratto del Duce che era posto inevitabilmente sopra la scrivania, e gettarlo a terra saltandoci sopra. Sapevo che era accaduto qualcosa di importante. Infatti Mussolini era stato spodestato. Le pagine dei giornali cominciarono ad apparire con le colonne bianche nelle quali le notizie erano state censurate, ma essi parlavano di eventi quali una riunione comunista presieduta da Giovanni Roveda, dell’attività politica dei socialisti ed altro. Questo era un periodo curioso sotto il governo del generale Badoglio e un momento di paralisi nei ranghi della classe governativa italiana e delle forze armate. Gli Alleati erano sbarcati in Sicilia. Noi sedemmo e aspettammo notando il crescente numero delle truppe tedesche. Poi il 9 settembre fummo chiamati per una parata dal nostro trombettiere e ci disse che il comandante italiano era dispiaciuto perché non aveva armi sufficienti da darci per combattere i tedeschi, ai quali lui voleva resistere, e che ci avrebbe lasciato uscire fuori dal filo spinato. Così ci ritrovammo in mezzo ai campi in Emilia, senza sapere dove andare e cosa fare. Dopo un paio di giorni passati nei canali, nelle macchie punti dalle zanzare, non lontano da Busseto, Ted – Edward Muniford un capitano dell’esercito indiano che avevo conosciuto da poco, disse che avremmo potuto trovare la salvezza nelle colline. Ted sarebbe diventato un solido e coraggioso compagno nei mesi che seguirono, anche se la nostra estrazione sociale e la nostra educazione, in special modo le nostre idee politiche, erano così diverse. Dopo aver trovato degli abiti civili una giacca, pantaloni e una camicia da una famiglia di contadini per la quale svolgemmo alcuni lavori nei campi, ci incamminammo, con lo scopo di arrivare, passando dalle vette più alte dell’Appennino, fino al sud dove avremmo dovuto trovare gli Alleati e che pensando in maniera ottimistica saremmo potuti arrivare vicino a Grosseto. Si prospettava un cammino molto duro e disagiato, con molti fiumi da guadare. Il Taro era in piena e l’acqua ci arrivò fino sotto le ascelle non appena vi entrammo. Solitamente dormivamo “nella stalla” di alcune famiglie di contadini. Dovevamo conoscere e rispettare i mezzadri che abitavano nell’Appennino; essi vivevano in un modo che mi sembrava non fosse cambiato dal Medio Evo. Avevano solitamente ma non sempre cibo a sufficienza e dovevano lavorare come i loro stessi buoi. Anche noi lavoravamo con loro arando e dissodando la terra con la zappa, raccogliendo le castagne, aiutando nella vendemmia, imparando, come nel mio caso, a capire il dialetto dell’Appennino Tosco Emiliano. Ciò che ci colpì maggiormente era che venivamo accolti positivamente e non eravamo trattati come ex nemici bensì come uomini che avevano qualcosa da offrire il nostro lavoro e, d’altra parte, con delle necessità umane di cibo e riparo. C’è da tener conto che offrendoci un rifugio essi rischiavano severe punizioni quali ad esempio la morte o la prigione. Le donne contadine, in particolare, erano assistenti e caritatevoli, ci portavano il cibo nei boschi o nelle colline quando c’era un rastrellamento. Se io domandavo perché rischiavano tutto ciò, loro rispondevano che speravano che nel mondo ci fossero altre persone che avrebbero fatto lo stesso per i loro figli, mariti, fidanzati, che erano prigionieri o dispersi dopo la guerra, un italiano che era sopravvissuto dal C.S.I.R., mi ha raccontato di aver ricevuto lo stesso trattamento dai contadini russi ed anche che questa era la loro carità cristiana. Soltanto in pochi giornali, che trovavamo occasionalmente, potevamo leggere invettive contro gli AngloAmericani. Dagli italiani non abbiamo mai ricevuto alcun segno di xenofobia.
In novembre attraversammo il passo dell’Abetone in mezzo alla neve alta. Indossavamo soltanto i vestiti che avevamo ricevuto dai contadini e ci chiedevamo se sarebbe stato possibile sopravvivere a quel freddo e se saremmo mai potuti arrivare in Toscana: “Sì, ce la facciamo!”. Ce l’abbiamo fatta. Facemmo un piano per arrivare a Pratomagno, che significava, lo sapevamo dalla nostra cartina geografica una mappa delle ferrovie italiane che avremmo in qualche modo raggiunto una località vicino a Prato, percorrendo la ferrovia Firenze – Bologna e camminando lungo il fiume che pareva scorrere lungo questa. Ci incamminammo con alcuni timori, cioè che una così importante linea ferroviaria poteva essere difesa. Era un giorno di dicembre al crepuscolo facemmo un giro per evitare un paese proprio davanti alla ferrovia si trattava infatti di Migliana lì incontrammo un tale. che ci chiese di farci riconoscere poiché ci aveva identificato. dagli stivali dell’esercito inglese. Quello fu un momento molto particolare, carico di tensione, che l’uomo subito dissipò mettendoci a nostro agio. Si chiamava Maurilio Franchi e ci persuase ad entrare nel paese. Rimanemmo in questo luogo per alcuni giorni. Poi con lui e sua moglie Gina, ci incamminammo una notte verso il Bisenzio, in direzione della linea ferroviaria, poi ci dirigemmo verso la Calvana ed infine arrivammo in una fattoria sul Monte Morello.
Lì mi ritrovai in mezzo ad un gruppo di partigiani armati di fucili ed una mitragliatrice. Da ciò che sapevo del movimento antifascista e del ruolo degli italiani nelle Brigate Internazionali in Spagna, avevo sempre immaginato che ci poteva essere un movimento partigiano in Italia formato dallo stesso tipo di persone. Ora ero felice di essere in contatto con loro. Dal mio punto di vista non era importante a fianco di chi si combatteva il Fascismo, l’importante era combatterlo. Ciò che trovai fu una formazione prevalentemente italiana ma che aveva anche persone jugoslave e russe. Era veramente un’organizzazione internazionale ed anche nel modo di pensare politicamente. Non eravamo considerati stranieri o ex nemici, non eravamo guardati con sospetto, ma fummo accolti con calore, come combattenti e compagni. L’accoglienza che ricevetti a Monte Morello confermò la mia fede nei legami internazionali che attraversavano le frontiere; avevo sempre ritenuto questo come uno dei principi fondamentali del Socialismo. Fu proprio con questi compagni che imparai a cantare Bandiera Rossa e il suo ritornello per “il comunismo e la libertà” che era ed è uno slogan utopistico, ma ogni persona ha bisogno di utopie era quello che Marx chiamava “il sogno di una cosa”. Era chiaramente difficile per me orientarmi e capire quale relazione intercorresse tra i membri dell’associazione. Oggi conosco qualcosa della loro storia ma nel dicembre 1943 lo ignoravo. Tuttavia non c’erano malintesi su quale fosse il ruolo di Lanciotto. Egli si imponeva (quasi) con la sua presenza fisica, il suo impeto, e il suo incredibile coraggio. Ricordo un tale, il cui nome era Ferdinando Puzzoli, il commissario politico col quale ebbi una lunga discussione riguardo alla politica. C’era un sardo, Luigi Ventroni, che aveva l’incarico di occuparsi della mitragliatrice. Quando provava l’arma sulle colline, essa funzionava veramente bene. Poi c’erano dei ragazzi di Sesto Fiorentino e altri che ricordo vagamente eccetto i loro nomi di guerra Ciccio La Rosa ma che adesso conosco incluso Guglielmo Tesi il Campigiano, Vandalo Valoriani di Sesto Fiorentino, Guzzon Benito e Lorenzo Barinci. C’erano due russi il tenente Vladimiro con il suo piede infetto, aveva bloccato un convoglio tedesco, e uno ucraino, un uomo melanconico che era convinto che non sarebbe mai tornato a casa. Dato che parlavo il russo potevo parlare con loro e ricordo che quando cominciò a nevicare Vladimiro disse che in quel momento sarebbe stato facile per i fascisti ritrovare le tracce dei partigiani. Dei due jugoslavi, Thomas era un ragazzo grosso, che poteva caricarsi sulle spalle grandi pesi, l’altro era Toni ‑ credo – fosse uno studente di Belgrado. Ero con loro a Valibona ad aspettare altri che dovevano arrivare. Ted era andato da un altra parte per prendere, se ricordo bene, altre munizioni ed armi. Una volta scesi giù con il gruppo attraverso la Briglia, dove si diceva ci fosse una casa di un industriale inglese. Forse quella poteva essere una possibilità per avere soldi e un po’ di cibo. Lungo la strada scorgemmo una pattuglia di carabinieri ma loro non fecero caso a noi. Ho alcuni ricordi delle mie passeggiate con Lanciotto verso la Croce della Calvana aspettando i messaggi che dovevano arrivare da Campi, immagino. La notte dormivamo bene distesi sul fieno, che sapevo essere un materiale caldo e un letto confortevole. I contadini erano sempre gentili con me. Ero tuttavia preoccupato del fatto che avrei dovuto persuadere il gruppo, per il fatto che si doveva mettere una sentinella. La sera del 1 gennaio ci fu una festa con balli e canti in una casa. Il giorno dopo una maestra, che sembrava conoscesse le ragazze della casa, arrivò. La sua presenza disturbava Lanciotto; parlammo insieme a lei, fuori dalla casa, avvertendola di non fare la spia. C’era anche un uomo che suonava la fisarmonica, ma non lo conoscevo. Il freddo era molto intenso nella notte del 2 gennaio. Ricordo che guardai fuori nell’oscurità e vidi il tetto del fienile bianco dalla brina e la costellazione di Orione che risplendeva sopra di noi. Non posso guardare questa costellazione senza ricordare quella notte e ciò che accadde la mattina dopo. Fu l’ucraino che la mattina del 3 gennaio, andò fuori e tornò dicendo che i fascisti erano li. Il combattimento è sempre una specie di caos. Qualcosa si delineò nella mia mente da quella confusione, vidi il sardo con la mitragliatrice che sparava ai fascisti, al di là dell’aia, che erano arrivati da Vaiano. Lanciotto mi disse di andare fuori con lui e di coprirgli le spalle con il fucile mentre lanciava le bombe ai fascisti che tentavano di trovare un riparo tra i massi sul versante della collina. Trovammo difficoltà a rientrare dentro per i colpi della mitragliatrice. Dopo trascorse quello che sembrò un tempo interminabile nel quale sparammo da dentro il fienile a quelli che si avvicinavano con molta cautela, salendo da tutte le parti; calcolai che dovevano essere una cinquantina. Mi ricordo che le possibilità di sfuggire al loro accerchiamento erano poche. Nel frattempo la mitragliatrice cominciò ad incepparsi ‑ credo per il fatto che il sardo aveva inserto nel nastro pallottole traccianti ogni cinque colpi. Poi Lanciotto ci disse di andare verso l’entrata in basso e di inoltrarci verso la collina. Potevamo vedere che i fascisti erano vicini alla fattoria. Vladimiro aveva un piede malandato e poteva camminare a fatica. Le sue possibilità di fuga erano limitate.
Sulla collina sopra il fienile mi acquattai e sparai mirando ad un ufficiale fascista che stava in piedi ed incoraggiava i suoi uomini ad avanzare. In un punto realizzai che le pallottole rimbalzavano sul terreno, vicino a me, mi alzai per andare più in alto. Fu in questo momento, credo, che dovetti saltare sopra il corpo di un giovane partigiano che giaceva rivolto in avanti con la faccia che era una maschera di sangue. Mi dissi che sicuramente doveva essere morto. Era, infatti, come sapevo, Loreno Barinci, che per un miracolo si salvò. Dopo aver sparato più colpi, realizzai che il mio fucile era inceppato. L’unica persona che si trovava vicino a me e che si muoveva, era lo jugoslavo Toni. Insieme decidemmo di trovare una via di scampo sulla collina e poi di scendere lungo la valle del Bisenzio nella quale ci riparammo nel bosco. Là incontrammo un ragazzo il cui fratello lavorava in una fattoria nella vallata. Venne a vedere in quale modo avrebbe potuto aiutarci. Quella notte Toni ed io ci incamminammo verso Migliana. Egli non vi voleva rimanere a lungo. lo venni ospitato dalla famiglia Santi sotto consiglio di Maurilio Franchi che aveva preso contatto con me. Rimasi lì per alcune settimane finché una mattina, quando ci fu un’incursione fascista contro un gruppo di partigiani presso “I Faggi”, mi decisi di andare via da solo, attraversando il Bisenzio e la Calvana per poi continuare verso sud. Più tardi mi ritrovai in un distaccamento del Raggruppamento Monte Amiata, così continuò il mio lavoro nella Resistenza. Alcuni giorni prima della liberazione della città, ebbi l’ordine di entrare a Siena dove mi vennero consegnati i documenti che mi facevano apparire membro della Polizia Urbana. Rimasi lì e vidi le ultime truppe tedesche che abbandonavano la città, e presi contatto con le truppe Alleate che entravano nella città subito dopo. In questo modo, agli inizi di luglio, io ero “nel Campo” quando gli abitanti di Siena festeggiarono la Liberazione con le bandiere delle contrade del Palio e la campana della torre del Mangia suonò, cosa che accadeva soltanto in occasioni speciali. Nei miei ricordi ho cercato di non essere contraddittorio: è il coraggio di quei giorni. Il coraggio non soltanto dei miei compagni della Resistenza in Toscana, ma di tutti coloro che in un certo modo rischiavano qualcosa sostenendoci e dandoci un aiuto decisivo. Mi ricordo una donna in particolare che mi passò davanti in un sentiero di un campo mentre stavo camminando per arrivare alla Sieve. Lei disse soltanto “Se sei uno di quelli non andare di là”. Infatti, dall’altra sponda del fiume c’era una pattuglia proprio nel punto in cui io sarei dovuto arrivare attraversandolo da quella parte, così scesi più sotto e lo guadai da un altro punto. In quella stessa sera, dopo essere arrivato ad un ponte ferroviario sopra l’Arno, scoprii che c’era una sentinella sul ponte. Camminai un po’ lungo la banchina pensando a cosa avrei dovuto fare. In quell’attimo sentii qualcuno che chiamava Ps! Ps!” e vidi che si trattava di un uomo in una barca. Lo raggiunsi, egli mi fece salire e mi portò al di là del fiume. Trascorsi la notte in una casa e la mattina seguente mi incamminai verso il Chianti, dove gli uomini della Resistenza mi presero nei loro ranghi. Sarò debitore per tutta la vita a quegli uomini e a quelle donne. Ritornai in Scozia nel 1944 e in dicembre partii nuovamente per il Nord Europa, alla volta della Germania. Quando ero in Germania, precisamente nel 1945, scoprii che i prigionieri russi che si erano arruolati nella Resistenza francese e belga, erano stati tutti deportati nei campi di concentramento di Stalin. Fu proprio questa scoperta, insieme ai miei studi sul Gulag, che segnarono la mia rottura completa con il Partito Comunista, molto prima della sommossa ungherese del 1956. Come molti altri, dovetti chiedere a me stesso quanto avrei potuto trattenere dentro di me le esperienze politiche passate. Decisi che potevo considerarmi un marxista socialista, un critico di sinistra dello stalinismo ed un elemento attivo del mio sindacato (divenne importante) l’Associazione dei Tecnici del Cinema e della Televisione della quale per molti anni ero stato vicepresidente. Le persone in Inghilterra alcune volte mi chiedono se tutto ciò abbia avuto un valore per me se i sacrifici della Resistenza siano stati degni di essere vissuti. Alcune volte, siccome io avevo visto quello che può essere chiamato il Colonialismo in Toscana in particolar modo intorno a Siena me lo sono domandato anch’io. Ma poi mi ricordo. quello che ho passato e che la Resistenza ha avuto un ruolo molto importante per la caduta del Fascismo in Italia proprio grazie ai suoi esponenti; con tutta probabilità in Europa sarebbe rimasto il governo di Hitler e Mussolini. Devo spiegare loro l’importanza della Resistenza come fattore morale e politico per tutti quegli italiani che ne hanno preso parte. Alcuni di loro, tutt’oggi, li considero i miei più cari amici e compagni. Nutro un grandissimo rispetto per la loro forza ed il loro coraggio, nonché per il loro sacrificio. Mi riferisco, per esempio, alla morte di Lanciotto e del sardo. Mi riferisco a Maurilio Franchi che era stato deportato a Mauthausen ed era riuscito a sopravvivere. Penso a Loreno Barinci che aveva visto la morte in faccia a Valibona.
Ciò che porto con me dell’Italia è il rispetto degli uomini e delle donne come questi generosi, coraggiosi. Alcuni mi chiedono anche: “Che cosa pensi degli ideali che descrivi e della rivendicazione nell’aver combattuto per essi? Sono passati di moda?”. Ad essi io rispondo che lo stalinismo non può essere equiparato al socialismo. Il socialismo è qualcosa che ha combattuto contro il cinismo, lo scetticismo, e contro quelle idee che la democrazia capitalista moderna ha è molto di moda dire – raggiunto “la fine della Storia”. Non posso accettare questo tipo di capitalismo, sotto il quale proprio nelle società ricche come gli Stati Uniti ad esempio alla fine i ricchi diventano sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri, e che questo sia l’unico modello di società. Per vedere la crudeltà del capitalismo abbiamo bisogno di notarne soltanto gli effetti sociali della sua introduzione in Russia, Polonia, nella Germania dell’Est o, ad esempio, in alcune zone specifiche della Repubblica Cinese, dove c’è uno sviluppo particolare del capitalismo. Devo dire di essere d’accordo con il vecchio detto secondo il quale c’è sempre una scelta tra il socialismo e la barbarie. Chi era quello che disse: La vita deve essere vissuta andando avanti ma può essere capita solo guardando indietro? Quando mi ritrovai con i miei compagni a Valibona non sapevo, e non penso che essi sapessero a loro volta, che abbiamo preso parte ad uno dei primi se non addirittura al primo ~ scontro armato da parte della Resistenza in Toscana. Anni fa ebbi l’onore di essere proclamato Cittadino Onorario di Campi Bisenzio per avere come disse il Sindaco nel suo discorso “Partecipato attivamente alla lotta contro i nazi-fascisti per la libertà del popolo”. Questa cittadinanza rappresenta qualcosa di cui sono veramente orgoglioso come Membro Onorario dell’A.N.P.I.
LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
PRINCIPI FONDAMENTALI
Art. 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Art. 5 La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Art. 6 La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Art. 7 Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Art. 8 Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di interesse con le relative rappresentanze.
Art. 9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Art. 10 L’Ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.
Art. 11 L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Art. 12 La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
APPUNTI STORICO NATURALISTICI
Le pendici intorno a noi, come quelle della Calvana, sono una testimonianza irripetibile di una armonica combinazione, fra l’azione della natura, che ha formato l’orografia del terreno, e quella dell’uomo, che nel succedersi dei secoli lo ha pian piano sistemato a sua misura ed abbellito con ville, edifici, terrazzamenti e culture prima fra tutte quella dell’olivo. Negli ultimi decenni, le cose hanno preso un’altra piega, ed “è importantissimo tutelare quei luoghi che danno asilo alla memoria e alla natura”. Nelle zone di monte Morello e della Calvana predominano calcari marmosi. Più a basso si hanno formazioni di argille scagliose specie lato meridionale; a valle, infine, si hanno depositi alluvionali quaternari, composti da argille mescolate a sabbie e a ciottoli arenacei. Nonostante la crescente antropizzazione molte delle colline intorno a Firenze e a Prato sono tuttora ricoperte, fino ad una quota intorno ai 300/400 m, da bellissimi uliveti, purtroppo, però, in stato di graduale abbandono, vi sono stati dei rimboschimenti di pino silvestre in zona Calvana e M. Morello.
La Calvana
La Calvana è una catena di andamento leggermente arcuato, che si stacca dall’appennino presso Montecuccoli, ed avanza verso sud fino alla piana di Prato, con ad ovest la valle del Bisenzio, ed a est quella del Sieve e poi del Marina, un torrente tributario del Bisenzio. La preminente consistenza calcarea del massiccio e la fratturazione della faglia che favorisce la circolazione idrica sotterranea sono all’origíne, delle forme ancora attive di carsismo (processo chimico operato dalle acque sulle rocce solubili) che costituiscono uno dei principali motivi di interesse della Calvana. Numerose le grotte, per le quali la Calvana è seconda in Toscana solo alle Apuane. Le grotte sono state esplorate e studiate, alcune sono notevoli per dimensione e bellezza, con spazi, sale, concrezioni, laghetti e torrenti. Alcune hanno carattere abissale e la loro vista richiede preparazione e attrezzature speleologiche adeguate, altre sono semituristiche, ma richiedono la presenza di un esperto. Una grotta, quella di “Forra Lucía”, è stata attrezzata a Laboratorio per lo studio dei vari aspetti chimico fisici dell’ambiente sotterraneo e della speleo fauna. La presenza dell’uomo ha influito non poco sul paesaggio; cercando di strappare terreno coltivabile verso le quote più alte, si sono formati nei secoli complessi sistemi di terrazzamento con muri a secco, oltre che numerose “macie”.
Monti a est del Bisenzio
La zona è formata essenzialmente dalla catena della Calvana, una lunga successione di larghi dossi, più o meno arrotondati, che si estende dal crinale appenninico (M. Prati Piani) fino alla pianura, per una lunghezza di oltre 25 km, culminante nel M. Maggiore (916 m). La catena della Calvana, si trova sulla sinistra idrografica del f. Bisenzio, che si stacca dalla dorsale appenninica presso Poggio ai Prati e che continua verso sud per Poggio Torricella (791m), Poggio Montecuccoli (777 m), Monte Maggiore (916 m), Monte Cantragrilli (818 m), Monte Retaia (753 m) e Poggio Castiglioni (397 m) fino alla sottostante pianura.
La sua costituzione geologica è per la parte settentrionale, come il vicino versante appenninico, è costituita da arenaria “macigno” (oligocene) e che quella meridionale è prevalentemente formata da calcari marnosi, alternati a scisti marnosi o arenacei. La forte presenza di calcare-alberese ha determinato notevoli fenomeni di carsismo in quest’ultima parte della Calvana. Numerose doline esistono infatti sulle pendici verso Calenzano e Filettole e grotte o gruppi di grotte sono stati localizzati lungo i versanti dei Monti Retaia, Cantagrilli e Maggiore. Grandi quantità di acque piovane, scompaiono in questa zona nel sottosuolo e riemergono all’altezza della “linea della risorgive”. Dal punto di vista vegetazionale, la Calvana presenta una maggiore copertura boschiva nella parte settentrionale ed una maggiore estensione di cedui più radi e di pascoli in quella meridionale, dove più consistente è la natura calcarea dei suoli.
A nord, in particolare, mentre il versante occidentale presenta sempre un certo sfruttamento agricolo (oliveti, pascoli, etc.), quello orientale, caratterizzato da maggiori pendenze, è occupato da numerosi rimboscamenti effettuati dal Corpo Forestale dello Stato (pino nero, abete bianco, etc.) e da castagneti molto vasti, specie nelle zone più settentrionali. Attorno a poggio Montecuccoli si estende per circa 700 ha il complesso demaniale della Calvana, costituito da fustaie di resinose e di latifoglie e da castagneti cedui. A sud, invece, al disotto della linea delle risorgive predominano fitti boschi di cedui e vaste cipressete, intervallate da ampie coltivazioni e da uliveti sui terrazzamenti; nella fascia superiore, cedui più radi di querce e roverelle e, nella parte sommitale, vaste aree a pascolo.
L’Ambiente umano
La parte meridionale della valle del Bisenzio è sempre stata particolarmente ricca di insediamenti umani, specie a ovest del Bisenzio, in funzione della produttività dei terreni e delle maggiori condizioni di sicurezza offerte rispetto alla pianura, anticamente paludosa e soggetta ad inondazioni. I primi abitatori della valle furono i cacciatori musteriani che, circa 30.000 anni fà, discesero fino all’uscita del Bisenzio nella pianura, attestandosi alle falde meridionali del Monte Ferrato e della Calvana. Ritrovamenti di strumenti litici sono infatti avvenuti a Galceti, Figline, Canneto e Filettole. Probabilmente la scelta del luogo si spiega con la presenza del diaspro del Monte Ferrato, che veniva da essi usato per la fabbricazione degli strumenti litici. Nella tarda età del bronzo (XI-X secolo a.C.) altri insediamenti si verificano nelle medesime zone, anche in questo caso per la possibilità di sfruttare il granitone di Monteferrato. Tracce di tali insediamenti sono state accertate presso la Cima del M. Mezzano, a Filettole, nel M. Ferrato e sul “Polendone”, un poggetto presso Collina di Prato. Subentrarono successivamente i Liguri che stabilirono varie colonie sia a difesa del passaggio lungo la valle (Casa del Piano, Filettole) sia presso i passi appenninici (Gavigno, Cavarzano). Nel VII sec. a.C. giunsero gli Etruschi che stabilirono, anche mescolandosi ai Liguri, altre basi o colonie per assicurare il transito fra il Montalbano (ove già erano saldamente insediati), il Valdarno e la pianura padana. Probabili insediamenti Etruschi sono stati localizzati anche nei pressi di Figline, collegati alla estrazione del rame dalle pendici del M. Ferrato. Ad essi seguirono i Romani, che, sempre per dare sicurezza ai traffici lungo la via del Bisenzio, crearono posti di guardia presso il fiume e ville e colonie sull’antica via che, a mezza costa, percorreva la valle (Coiano, Faltugnano, Fabio, Savignano, Vaiano, etc., sono chiaramente toponimi latini. La distribuzione degli insediamenti si modificò sotto il successivo dominio dei Longobardi e nell’alto medievo, motivi di sicurezza determinarono in questo periodo, in val di Bisenzio, come altrove, uno spostamento a monte degli insediamenti, in vicinanza dei castelli, e l’apertura di nuove strade di collegamento. Molte sono le testimonianze edilizie dei Medioevo, (chiesette, case torri, villaggi dalle architetture romaniche in pietra alberese.
FILETTOLE (m. 142)
La località fu abitata fin dall’età del bronzo (1100-1000 avanti Cristo); nell’alto Medioevo vi sorgeva probabilmente un fortilizio bizantino. Dal 1100 fece parte della Repubblica di Prato. I muri in pietra, alcune antiche case, un ponticello e il rio che precipita in un folto di alberi compongono un insieme pittoresco. La Pieve di S. Maria Assunta, distrutta durante un bombardamento, nel 1944 è stata ricostruita in forme che ricordano quella medioevale.
CARTEANO (m. 161)
Da Carteano si segue l’antica via di Valibona che si inoltra nella piccola valle del Rio Buti. Ebbe importanza nel Medioevo per le comunicazioni fra Prato e il Mugello e ricalca una pista di epoca romana o antecedente (etrusca o ligure). Conserva tratti di rustico lastricato e poderosi muri a retta. Il tracciato della strada passa sopra la Villa del “Querciantino”, (edificio del ‘500) giunge poi alla case di “Vallupaia”, con resti medioevali, e arriva vicino al paese di Canneto, dove spicca la Villa “Rucellai”, (notevole edificio realizzato tra il ‘400 e il ‘500 con giardino pensìle, loggia ad arcate eretta sulle strutture dì un fortilizio pratese).
VALIBONA (m. 617)
Passo che mette in comunícazìone la val di Bisenzio con la val di Marina, si apre con vaste spianate erbose un tempo coltivate fra le pendici dei monti Cantagrilli e Cagnani, nella zona detta “I Crocicchi”. Sul lato della Val di Marina si trova il nucleo di CASE DI VALIBONA dove parte una rotabile per il passo delle Croci di Calenzano. La strada fa parte di un’unica via che ebbe importanza nel medioevo per le comunicazioni con il Mugello sulle tracce di una pista pre-romana.
Le case, oggi abbandonate, conservano strutture medioevale in pietra alberese e più rustiche murate settecentesche, con archi in mattoni. Da notare sul fronte a nord-ovest la doccia di recupero delle acque piovane dal tetto realizzata in lastre e mensole di pietra.
MONTE MAGGIORE (m. 916)
La massima elevazione della Calvana. Panorami amplissimi, sul versante dei Bisenzio si domina Vaiano, ad est si apre la vista sull’altopiano del Mugello ornato di cime. In una cornice più vasta si spazia dalle Apuane al Pratomagno, dal Falterona al Monte Pisano, fino al quale, in condizioni di eccezionale visibilità, può accadere di scorgere, come una sottile lamina scintillante, il Mar Tirreno. Sul versante della Marina e della Sieve i fianchi sono coperti da fitte abetaie e spesso assai dirupati, aperti in verdi praterie quelli verso il Bisenzio. I prati un tempo erano tenuti a fieno, la cui raccolta “fienagione” era regolata da norme antichissime. Il fieno veniva portato a valle su “tregge” (carri slitte privi di ruote) trainate da buoi. Le antiche zone a pascolo si sono ad oggi estese, e la Comunità Montana sta cercando di riacclimatarvi i bovini da carne e da tiro di tipica razza “Calvana”.
Attività Didattica
La valle dei Bisenzio fu teatro, durante l’ultimo conflitto, di molti episodi di lotta di Liberazione.
Un gruppo principale, che aveva le proprie basi nella zona di M. Javello
A Figline di Prato i tedeschi trucidarono dopo che si erano arresi 29 partigiani
Le particolarità naturali, ambientali
Percorrere i Sentieri della Memoria
DALLE CITTÀ DELLA PIANA A VALIBONA
Percorsi per tutti
in programma per il 25 aprile
I percorsi sono anche indicati per le scuole
Croci di Calenzano, fino alla Regina del Bosco ed inizio del trekking.
(Percorso indicato per anziani e famiglie con bambini.)
Dalla Regina del Bosco con il sentiero 44R si arriva fino a Case di Valibona in circa ore 1,00. Sosta al Monumento Partigiano e ristoro.
Discesa fino alla Regina del Bosco, ore 0,40.
Da Filettole con il sentiero n. 40 per la Retaia, fino a Case di Valibona (m. 602) ore 3 di percorso. Sosta al Monumento Partigiano e ristoro. Possibilità di escursione sul Monte Maggiore (m. 916), ore 1,30 di percorso, punto panoramico e il più alto della Calvana. Discesa al passo delle Croci di Calenzano, ore 1,00
Da Travalle (m. 79), per Poggio Fameto (m. 212) fino al passo di Cavagliano (m. 500) dove con il sentiero n. 20 si raggiunge Valibona (m. 602), ore 4,00 di percorso. Sosta al Monumento Partigiano e ristoro. Discesa al passo delle Croci di Calenzano, ore 1,00 di percorso.
Si raccomandano scarpe da trekking o scarponi alti e robusti.
L’alta via dei partigiani
La dorsale appenninica della val di Bisenzio rappresenta il sub- bacino più importante del fiume Arno. Inizia presso Poggio ai Prati e corre verso sud per circa 25 km. Formando la lunga catena della Calvana, culminante con il M. Maggiore (m. 916) si unisce con l’altra catena sub appenninica che staccandosi dalla Calvana presso M. Maggiore, corre in senso latitudinale per il passo delle Croci di Calenzano, M. Morello (m. 934) M. Giovi (m. 992) e giunge a nord a Pontassieve e si collega con l’alta via dei partigiani dell’Appennino.
Indice argomenti – Foto di copertina:
Composizione con la foto del Fienile dove erano ospitati i partigiani, foto dei caduti in battaglia, il Comandante Lanciotto Ballerini e Luigi Ventroni addetto al fucile-mitragliatore “Breda”. Non avendo la foto del russo Andrey Vladimiro, ucciso dopo la cattura è simboleggiato dallo stemma dell’A.N.P.I. con incluso quello del gruppo partigiano.
Indice argomenti:
Canzone di Resistenza: “Inno della 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini”
Il Parco Storico della Calvana, “Il Percorso della Memoria”
con la Testimonianza del Partigiano Silvano Franchi, Presidente A.N.P.I. Calenzano
“Un giorno di qualche anno fa, alcuni giovani sono partiti per la montagna:
per la pace, la libertà e la giustizia sociale”.
In ricordo del Gruppo d’assalto Garibaldi “Lupi Neri”
I Partigiani combattenti protagonisti della Battaglia di Valibona
Testimonianza parziale del Puzzoli, Commissario Politico partigiano
Testimonianza parziale del Barinci, Partigiano ferito in battaglia
Testimonianza parziale di Stuart Hood, partigiano Capitano Inglese
La Costituzione Italiana – I Principi Fondamentali
Appunti storico naturalistici:
La Natura, La Calvana, Monti a est del Bisenzio, l’ambiente umano
Escursioni trekking “L’Alta via dei Partigiani”
Mappa dell’area della Calvana
Canzoni della Resistenza: “Bella Ciao” e “Fischia il Vento”
Foto nel opuscolo archivio A.N.P.I. Campi Bisenzio:
Un particolare di Case di Valibona
Cippo in ricordo della Battaglia, situato a Valibona
Partigiani in cammino “scarpe rotte eppur bisogna andar”
“I luoghi della battaglia“ Fienile dove erano ospitati i partigiani
Secondo fienile, nel retro, vicino ad un pozzo a Case di Valibona
Particolare del 2° fienile vicino al pozzo a Case di Valibona
Particolare case abbandonate, nel retro a Case di Valibona
Lanciotto e Potente, distribuita dopo la Liberazione di Firenze
Particolare Case di Valibona
Particolare Case di Valibona
Mappa della Calvana
Foto retro copertina:
Cippo in ricordo della Battaglia, situato a Valibona, nel luogo in cui fu ritrovato il corpo del Comandante partigiano Lanciotto Ballerini
BELLA CIAO
(Partigiana)
Questa mattina mi son svegliato
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
questa mattina mi son svegliato
e ho trovato l’invasor.
Oh partigiano, portami via
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
oh partigiano, portami via,
che mi sento di morir.
E se io muoio lassù in montagna
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
e se io muoio lassù in montagna
tu mi devi seppellir.
Seppellire sulla montagna,
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
seppellire sulla montagna
sotto l’ombra di un bel fior.
E le genti che passeranno,
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
e le genti che passeranno
mi diranno: ” Che bel fior “.
È questo il fiore del partigiano,
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
è questo il fiore del partigiano
morto per la libertà
FISCHIA IL VENTO
Fischia il vento, infuria la bufera,
scarpe rotte eppur bisogna andar,
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell’avvenir.
Ogni contrada è patria del ribelle
ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle
forte il cuore e il braccio nel colpir.
Se ci coglie la crudele morte
dura vendetta verrà dal partigian;
ormai sicura è gia la dura sorte
contro il vile che noi ricerchiam.
Cessa il vento, calma è la bufera,
torna a casa fiero il partigian
Sventolando la rossa sua bandiera;
vittoriosi e alfin liberi siam.
per contatti:
Email: anpicampibisenzio@virgilio.it
Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Sezione Lanciotto Ballerini
Piazza G. Matteotti, 25 Campi Bisenzio (FI)
TESTIMONIANZE,
IMPRONTE DELLA NOSTRA MEMORIA.
Testimonianza di Panerai Giovacchino
Patriota delle S.A.P. di Campi Bisenzio
L’11 settembre ‘43, mi trovavo per ragioni di lavoro in città all’altezza di via dell’Ariento, vidi un fiume di persone che venivano dal centro correndo e urlando: “I tedeschi, i tedeschi!”. – I barbari presero possesso della città -. Mediante cordoni di truppe isolarono Piazza S. Marco e si impossessarono del comando di corpo d’armata dove issarono la bandiera da guerra tedesca e sull’ingresso della porta principale vi misero il loro stemma “un’aquila” simbolo della rapacità. La città venne tappezzata di manifesti con ordini scritti in tedesco e ricomparirono sui muri dei manifestini fatti stampare dalle gerarchie fasciste inneggianti “ai nostri fedeli generosi e potenti alleati”. Quindi incominciano i saccheggi, nei depositi militari, nei negozi di articoli militari, nei mulini e negli esercizi con generi commestibili, le merci venivano ammassate nei magazzini militari di Rifredi e spedite in Germania.
Nella Firenze occupata i Dirigenti comunisti decisero con una riunione di far allontanare i più conosciuti, per evitare che fossero arrestati e di organizzare la guerra partigiana. Gino Tagliaferri e Giuseppe Rossi, tra i fondatori del Partito Comunista fiorentino, ebbero l’incarico di organizzare e di far affluire i compagni più conosciuti su Monte Morello. Gino e Giuseppe la sera del 12 settembre 1943 arrivano a Campi, per incontrarsi con i compagni del territorio, per avviare le operazioni organizzative per la formazione del gruppo partigiano. A Campi i principali organizzatori dell’attività antifascista sono: Spartaco Conti detto Vasco, esponente di rilievo del Partito Comunista e coordinatore dell’attività politica clandestina e Ferdinando Puzzoli detto Nandino aderente al partito comunista con un passato d’anarchico. Nandino è un personaggio straordinario, il suo modo di parlare il suo incredibile passato di arresti e persecuzioni lo portano ad essere un fondamentale punto di riferimento per tutto l’antifascismo campigiano.
Testimonianza di Spartaco Conti,
Comandante coordinatore delle SAP locali
Il 12 settembre si tiene una riunione con l’intervento dei compagni Giuseppe Rossi e Gino Tagliaferri di Firenze, che c’informano sulle ultime direttive del partito. La riunione ebbe luogo sul retro del cimitero comunale del capoluogo di Campi in Via S. Giorgio (oggi via Tosca Fiesoli, in ricordo della giovane donna uccisa da un militare tedesco). Alla riunione erano presenti oltre al sottoscritto, Verniani Primo detto Buttallaria, Puzzoli Ferdinando detto Nandino, Ballerini Alfredo, Querci Alberto, Bacci Romolo, Paoli Fiorenzo, Paoli Rino, Roti Belisario, Sernissi Giuseppe, Palloni Mario, Papi Giovanni, Bernardi Corrado, Frati Alfredo, Borracchini Fernando, Conti Bonò, Casini Marino, Puzzoli Giuliano e inoltre Calieri Aldo in rappresentanza delle Squadre di Azione Patriottica (S.A.P.) per S. Donnino, Passerini Carlo per S. Piero a Ponti, Bacarelli per S. Angelo a Lecore, Pancani per Capalle, Rossi Nello per La Villa, Panerai Renato detto Lo Scuro per S. Maria, Rugi Ferriano per S. Martino ed altri compagni di cui non ricordo il nome, tutti iscritti al Partito Comunista. Durante la notte nell’appartamento di Alfredo Ballerini, accompagnati da Buttallaria pernottarono Tagliaferri e Rossi. Vi furono due riunioni nel retro del cimitero comunale del capoluogo onde stabilire i compagni che sarebbero dovuti andare in montagna come partigiani. La prima con l’intervento di 39 compagni fu presieduta da Giuseppe Rossi e Gino Tagliaferri, la seconda andò fallita perché il numero dei partecipanti era esiguo. All’incontro nella casa del colono Serafino Colzi, in via Tomerello, iscritto al partito, pronto a dare tutto se stesso per la causa antifascista, venne deciso chi doveva partire per la montagna. Dalla casa colonica di Serafino Colzi la sera del 15 settembre 1943, all’imbrunire, il Comandante Lanciotto Ballerini e il Commissario politico Ferdinando Puzzoli alla testa del gruppo partigiano di Campi, partono per la montagna.
La casa colonica abitata dal mezzadro Serafino Colzi a Tomerello, è il luogo in cui gli antifascisti locali e dei dintorni, si riunivano per incontrare gli emissari del PCI fiorentino e del CTLN, un punto importante di riferimento dell’antifascismo locale, è da qui che i partigiani risalendo l’alveo del T. Marina, si dirigono su M. Morello. Nasce così una delle prime squadre partigiane nella provincia di Firenze. Dalla Piana arrivavano aiuti alimentari, materiali, informazioni, ordini. Il pane per il fabbisogno dei gruppi partigiani veniva fatto quando era possibile due o tre volte la settimana da Loreno Barinci a Collinella, dove c’era un forno abbastanza grande.
Testimonianza di Loreno Barinci
Partigiano ferito in battaglia, catturato
Quando mi presentai al primo gruppo di partigiani che erano radunati a Monte Morello alla Corte di Querciolino, conobbi Lanciotto, il quale per prima cosa ci disse come comportarsi. Al gruppo partigiano mi portarono alcuni amici (Saltamacchie, i fratelli Ghizzo, Bugelli, Farini e il Boni). Ciò che mi spinse ad entrare nel gruppo partigiano non fu una scelta politica ben precisa, ma un fatto istintivo d’opposizione al regime fascista. Durante il servizio militare, mi trovai a dover scegliere: o accettare quel regime e quindi fare il servizio militare, oppure andare con i partigiani. Il gruppo partigiano aveva un numero effettivo di uomini che variava dai 30 ai 40 il giorno. La vita in montagna era molto dura, al rischio e al pericolo di essere catturati si accompagnava il poco mangiare. Alcuni preferirono abbandonarci perché non adatti ad affrontare tali difficoltà, tentando di tornare dalle loro famiglie.
Testimonianza di Spartaco Conti
Comandante coordinatore delle SAP locali
Il 7 ottobre 1943 fui informato da Fiorenzo Paoli, facente parte delle S.A.P., che nei pressi di Lucciana si trovavano ospitati presso una famiglia di coloni tre soldati inglesi fra cui un capitano, i quali da un momento all’altro sarebbero stati catturati dai fascisti, che erano venuti a conoscenza della loro presenza. Con un piccolo camioncino scoperto, Borracchini Fernando, Lombardi Raffaello detto “Fellino” come autista, ed io, partimmo alla volta di Lucciana, armati di rivoltelle e bombe a mano. Lungo la strada, a Coiano trovammo un gruppo di militi fascisti, i quali ci fermarono e vollero salire. Erano diretti a Montepiano. Al bivio fra Montepiano e Lucciana, i militi fascisti furono fatti scendere. Arrivati nei pressi di un ponticello a Lucciana, luogo dell’appuntamento già predisposto dal Paoli, dopo pochi minuti d’attesa, dalla collina vicina scese un gruppo di contadini, fra i quali vi erano i tre soldati inglesi. I quali furono fatti salire sul camioncino ed adagiati sul pianale, li coprimmo con un tendone. Borracchini e io ci sedemmo a lati, vicino alle bandine. Partimmo così alla volta di Sommaia. Arrivati nei pressi di S. Lucia ci imbattemmo in un posto di blocco presidiato da un gruppo di fascisti. “Fellino”, l’autista, senza esitazione si diresse a tutta velocità contro lo sbarramento e lo forzò. Dopo una pericolosa sbandata proseguimmo la corsa, mentre i militi fascisti attoniti non riuscirono neanche a sparare. Raggiungemmo così Sommaia dove trovammo ad attenderci Renzo Ballerini al comando di una squadra di partigiani. Facemmo scendere dal camion il capitano e i due soldati i quali, si incamminarono con il gruppo verso Monte Morello.
I Partigiani non erano dei soldati, dei gruppi di combattimento isolati, estranei alle masse popolari: v’era invece tra queste e quelli una corrispondenza, che si manifestava nei modi più vari, con la fornitura di viveri, il ricovero di feriti, il trasporto e l’occultamento di armi e altro. In tutta l’Italia occupata, in quel tragico autunno, i tedeschi impongono le leggi di guerra germaniche con la collaborazione dei fascisti di Salò. Iniziano i rastrellamenti, alla ricerca di ebrei, comunisti, retinenti alla leva, disertori. A Firenze si costituisce dal 17 settembre 1943 la 92a legione della milizia volontaria sicurezza nazionale con a capo Mario Carità. Questo “reparto”, ma è più giusto chiamarlo “banda” nel senso di aggregazione di malfattori, era formato da rottami umani d’ogni sorta; delinquenti comuni colpevoli di reati gravi, ladri, rapinatori, evasi dalle prigioni. Spazzatura che con l’adesione alla “repubblica sociale italiana” si garantivano l’impunità per proseguire nelle loro imprese, con in più mano libera per dare sfogo all’istinto sadico che li pervadeva, e perfettamente funzionali ai propositi della repubblichetta di Mussolini e ai folli progetti di Hitler. Nella famigerata “Villa Triste” comando della polizia fascista fiorentina, molti antifascisti vi trovano tra atroci torture la morte. Nell’autunno ’43 a Firenze gli ebrei ufficialmente schedati superano le 2.326 unità. Il rabbino della città, cerca di avvertire tutti i membri della sua comunità dei pericoli che stanno incombendo, esorta gli ebrei a trasferirsi fuori Firenze presso le abitazioni di amici fidati. I nazi-fascisti con i brutali rastrellamenti effettuati in tutta la provincia, con la loro spietata caccia all’uomo, catturano e deportano circa 400 persone di fede ebraica. Nel novembre 1943 dalla stazione di S. Maria Novella partono due convogli ferroviari per i campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau. In Campi esiste un’organizzazione segreta che da protezione ed aiuto agli ebrei, fin dal settembre 1943. Due fratelli campigiani Bruno e Raffaello Mugnaioni che lavorano a Trieste e vivono in questa città la tragedia delle deportazioni, tramite contatti segreti inviano a Campi Bisenzio alcune famiglie ebraiche che fuggono dalla Gestapo, mentre a Trieste i nazifascisti stanno deportando e uccidendo tutta la comunità ebraica. Vari sono i nuclei familiari locali che hanno dato assistenza e ospitalità ai fedeli della religione ebraica e nonostante i rastrellamenti, nessun ospite a Campi viene mai scoperto e catturato. Tanti a Campi nascondono nel silenzio più assoluto soldati alleati, antifascisti, giovani retinenti alla leva, mettendo a repentaglio la loro stessa vita.
Testimonianza Stuart Hood detto Carlino
Capitano dell’esercito inglese
Era un giorno di dicembre quando da Migliana dove eravamo ospiti da alcuni giorni, ci dirigemmo verso la Calvana ed infine arrivammo in una fattoria sul Monte Morello, accompagnati da Maurilio Franchi e da sua moglie Gina. Lì mi ritrovai in mezzo ad un gruppo di partigiani armati di fucile e di una mitragliatrice. Da ciò che sapevo del movimento antifascista e del ruolo degli italiani nelle Brigate Internazionali in Spagna, avevo sempre immaginato che ci poteva essere un movimento partigiano in Italia formato dallo stesso tipo di persone. Ora ero felice di essere in contatto con loro. Dal mio punto di vista non era importante a fianco di chi si combatteva il fascismo, l’importante era combatterlo. Ciò che trovai fu una formazione prevalentemente italiana ma che aveva anche persone jugoslave e russe. Era veramente un’organizzazione internazionale ed anche nel modo di pensare politicamente. Non eravamo considerati stranieri o ex nemici, non eravamo guardati con sospetto, ma fummo accolti con calore, come combattenti e compagni. L’accoglienza che trovai a Monte Morello confermò la mia fede nei legami internazionali che attraversavano le frontiere; avevo sempre ritenuto questo come uno dei principi fondamentali del Socialismo. Fu proprio con questi compagni che imparai a cantare Bandiera Rossa e il suo ritornello per il comunismo e la libertà – che era ed è uno slogan utopistico, ma ogni persona ha bisogno di utopie – era quello che Marx chiamava “il sogno di una cosa”.
Testimonianza di Ferdinando Puzzoli
Commissario del Gruppo d’Assalto Garibaldi “Lupi Neri”
Verso la fine del mese di dicembre dell’anno 1943, dopo circa tre mesi e mezzo dalla costituzione del primo gruppo partigiano, eravamo accampati nei pressi di Monte Morello. Ricevemmo l’ordine dal Comando Militare del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale di Firenze di spostarci poiché, da informazioni sicure, era imminente un rastrellamento in forze da parte dei nazisti e dei fascisti, i quali avrebbero accerchiato la zona di Monte Morello da quattro direzioni e cioè: da Vaglia, da Legri, da Sesto Fiorentino e da Calenzano.Decidemmo così di spostarci momentaneamente sulla Calvana. Eravamo quaranta uomini del primo gruppo, il secondo e il terzo gruppo si erano già spostati verso altre località come da ordine ricevuto. Nascondemmo le armi pesanti, tre mitragliatrici “Breda” e trentamila colpi. Lasciammo ventitre uomini e un capitano inglese nella zona. Essi dovevano portare a termine un’operazione delicata, cioè lo smontaggio di proiettili di mortaio e l’invio del tritolo al Comitato Militare Toscano. Questi uomini, dopo aver terminato la loro delicata operazione, dovevano raggiungerci. Il restante, diciassette uomini, ci spostammo con il comandante militare Lanciotto Ballerini. Avevamo ordinato a Sesto Fiorentino la bandiera da combattimento: un lupo nero in campo rosso con le fauci spalancate. Infatti avevamo battezzato il nostro gruppo “Lupi Neri”.
Testimonianza di Loreno Barinci
Partigiano, ferito in battaglia, catturato
Un giorno venne da noi Tagliaferri e nel corso di una riunione in cui era presente tutto il gruppo, compreso il comandante Lanciotto Ballerini ed il Commissario Politico Ferdinando Puzzoli, ci spiegò che era il momento di agire. Quindi era necessario spostarci in un posto più sicuro: o le Colline Pistoiesi o Monte Giovi. Eravamo d’accordo con il Centro Dirigente, proponemmo di spostarci sulla Calvana, come prima tappa per poi proseguire. I monti della Calvana si prestavano in modo particolare, a degli spostamenti veloci. Così facemmo. Nel nostro gruppo faceva parte un capitano inglese col nome di battaglia Carlino di schietti sentimenti antifascisti.
Il 25 dicembre 1943 a Campi Bisenzio, il Comandante delle S.A.P. incontra il Comandante Partigiano.
Testimonianza di Spartaco Conti
Comandante coordinatore delle SAP locali
Durante il Natale 1943 fui informato dal figlio di Colzi Serafino che il compagno Lanciotto Ballerini era sceso dalla montagna per riabbracciare sua moglie e che si trovava a casa sua, all’ora mi recai in via Tomerello ove ebbi un lungo colloquio e presi accordi per l’invio di viveri, indumenti ed armi per il gruppo partigiano.
In questa occasione Lanciotto informa Spartaco delle ultime direttive e dello spostamento del gruppo. La notte del 26 dicembre il gruppo “Lupi Neri”, si sposta, scende da Monte Morello, guada la Marina in un punto pericoloso e si arrampica su per la Calvana, la mattina del 27 giunge a Valibona. Il gruppo era discretamente armato con fucile mitragliatore, tre o quattro bombe a mano ciascuno, moschetti individuali con diversi caricatori e varie pistole.
Testimonianza di Loreno Barinci
Partigiano, ferito in battaglia, catturato
Partimmo in 19 uomini il giorno 26 dicembre, arrivando in Valibona il giorno successivo. In un primo tempo, per la sorpresa e alcuni momenti di perplessità i contadini non ci accolsero molto entusiasticamente, infatti si ripetevano l’un l’altro, “sono arrivati i ribelli, sono arrivati i ribelli!”. Questa diffidenza però fu molto breve: i contadini capirono che non eravamo le persone che il regime dipingeva. Questo grazie all’azione politica che il Commissario “Nandino” faceva verso le famiglie dei contadini spiegando loro che noi non eravamo armati per derubare o per razziare, ma per liberare il nostro paese dai tedeschi e dai fascisti, e parlammo loro di un mondo migliore che sarebbe sorto dopo la nostra vittoria. Riuscimmo a trasformare la loro diffidenza iniziale in ospitalità, prima, ed in aiuto concreto, dopo. In questo clima la vita del gruppo si svolgeva in modo regolare, alternando riunioni di carattere politico ed organizzativo ad azioni di perlustramento.
I partigiani furono sistemati dai mezzadri della zona, il Lastrucci li lasciò dormire nel fienile, e per il mangiare metà dal Fioravanti e metà dal Lastrucci, con qualche puntata dagli Arrighini e dal Fusi. Erano in quei giorni 19 partigiani, quasi tutti giovanissimi. Non si può dimenticare e non ricordare senza commozione la generosità e lo spirito di fraternità di cui diedero prova a prezzo di gravi sacrifici le famiglie dei mezzadri toscane. E’ grazie al loro coraggio e alla solidarietà che i partigiani possono sopravvivere sulle montagne, e nello stesso tempo tanti militari sbandati e tanti prigionieri trovare scampo dai rastrellamenti tedeschi.
Testimonianza di Dario Fusi
Mezzadro di Casenuove di Valibona
Si videro arrivare su (in Calvana) questi partigiani. Dormivano in un grande fienile su, tra le case dei contadini di Valibona e mangiavano nella casa del Lastrucci. Noialtri contadini che si stava poco distante, la sera si andava a passare qualche ora con loro: si parlava, a volte si portava una fisarmonica e si cantava. A volte venivano loro a casa mia a prendere il latte, e noi gli si dava quello che si poteva (in quei giorni si era a tessera).
Testimonianza di Loreno Barinci
Partigiano, ferito in battaglia, catturato
Durante una perlustrazione, ritornando alla base, ci informarono che nel frattempo un’altra pattuglia comandata dal tenente dei genieri sovietici Vladimiro, si era scontrata con reparti fascisti, di scorta ad una colonna della T.O.D.T. (membri dell’ispettorato generale del lavoro, responsabili dell’invio al lavoro forzato in Germania di tanti italiani) in località Cornocchio. Nello scontro a fuoco rimase uccisa (gravemente ferita) una donna che lavorava come interprete. Quest’episodio ci costrinse a restare per circa due giorni inattivi.
Testimonianza di Dario Fusi
Mezzadro di Casenuove di Valibona
Alcuni partigiani andavano a cercare roba da mangiare a Savignano alla fattoria di S. Gaudenzio e da altri contadini della zona. Dopo quattro giorni tutti sapevano che quassù c’erano i partigiani. La situazione giunse all’orecchio dei fascisti.
Lo scontro a fuoco con i fascisti al Cornocchio non passò inosservato, l’interprete ferito muore in ospedale. I fascisti cercano un soldato straniero, che porta un colbacco con la stella rossa. Tramite esperte spie ottennero delle informazioni sulla presenza dei partigiani nei monti della Calvana, anche se non conoscevano il luogo preciso erano a conoscenza della presenza di prigionieri stranieri, per ognuno dei quali i tedeschi avevano messo una taglia di 1800 Lire.
Testimonianza di Stuart Hood detto Carlino
Capitano dell’esercito inglese
La sera del 1° gennaio ’44 ci fu una festa con balli e canti in una casa (Valibona). Il giorno dopo una maestrina, che sembrava conoscesse le ragazze della casa, arrivò. La sua presenza disturbava Lanciotto; parlammo insieme a lei, fuori dalla casa, avvertendola di non fare la spia. Il freddo era molto intenso la notte del 2 gennaio. Ricordo che guardai fuori nell’oscurità e vidi il tetto del fienile bianco dalla brina e la costellazione di Orione che risplendeva sopra di noi. Non posso guardare questa costellazione senza ricordare quella notte e ciò che accadde la mattina dopo.
Testimonianza di Ferdinando Puzzoli
Commissario politico partigiano
L’accerchiamento di Valibona, frutto della delazione di spie fasciste, dimostrò di quale tempra erano forgiati i nostri uomini. Eravamo diciassette: dodici italiani, due sovietici, due slavi e un capitano dell’esercito inglese, ex prigionieri fuggiti dal carcere o da campi di prigionia. Il 3 Gennaio 1944 – Alle sei del mattino, noi dormivamo in un fienile di muratura adiacente a tre case coloniche, raggruppate in località Valibona. Ad un tratto mi sento violentemente scuotere per un braccio. E’ il sovietico Mirko che montava la guardia e che, con voce emozionata, mi dice – Commissario siamo accerchiati! Tanti e tanti fascisti con mitraglie in pieno assetto di guerra -. Mi alzo, scuoto Lanciotto e gli riferisco l’accaduto ed egli silenziosamente si alza. Mi rivolgo sottovoce al sovietico e gli dico che svegli tutti gli uomini. Il sardo Ventroni, addetto al fucile mitragliatore, piazza la sua arma verso l’entrata del fienile. Le nostre armi erano moschetti con circa dodici caricatori ciascuno e una sessantina di bombe a mano, rivoltelle ed un fucile mitragliatore “Breda”. Prendo il moschetto e mi avvio verso l’ingresso del fienile seguito da Lanciotto che invita tutti gli altri a seguirci. Vesuvio (Ciro Pelliccia), saputo che eravamo accerchiati, esce con un motto di spirito: – Finalmente – egli dice – i fascisti sono venuti a trovarci -. Alle prime luci dell’alba, un’alba fredda di gennaio, una voce dal di fuori con tono autoritario grida: – Arrendetevi, o sarete tutti morti -. Per tutta risposta, Lanciotto ordina al sardo Ventroni di aprire il fuoco con la mitragliatrice. Tutti gli uomini stesi a terra all’entrata del fienile sparano con il moschetto. Lanciotto, con un salto, ha scavalcato l’entrata del fienile e del cancello. Lancia bombe, Rosolino (Matteo Mazzonello) salta anche lui per seguirlo. Gli ordina di rientrare. Fra una pioggia di proiettili che fischiano rabbiosamente, i due rientrano. Con la coscienza della drammatica situazione in cui ci trovavamo, Lanciotto grida rivolto a me – Tu tieni forte costì, io vado in fondo al fienile a scardinare la porta laterale -. In quel momento una bomba scoppia nel retro del fienile con un fracasso infernale. Dopo qualche attimo Lanciotto dotato di una forza non comune, riesce a scardinare la porta e con voce ferma grida: Scendete tutti, giù! Venite presso di me. Rimanga solo il sardo con il bipiede. Portatemi tutte le bombe disponibili -. Gli uomini hanno un attimo di indecisione, sono pallidi, comprendono la lotta impari da affrontare. Egli intuisce quell’attimo di indecisione e grida – Fai scendere tutti e a chi non vuole sparagli -. Mi rivolgo ai compagni dicendo loro: – Avanti ragazzi, scendiamo tutti -. Allora tutti scendono, portando le bombe, e Lanciotto se ne riempie le tasche e la camicia gridando – Al mio ordine uscite tutti, sparate calmi e risparmiate le munizioni. Tentiamo di rompere l’accerchiamento -. Con rapidità fulminea scaraventa la porta lanciando bombe fuori. Quindi usciamo tutti dietro a lui. Scorgiamo gruppi di nemici fuggire. Guidati da Lanciotto giungiamo dietro al fienile. A balzi attraversiamo una piccola aia per raggiungere un fosso laterale ed un secondo fienile. Sparano. Sparano con la mitragliatrice. A questo punto Lanciotto vede circa cinquanta guardie “repubblichine” con i mitra imbracciati che scendono dalla collina verso di noi. Con voce tonante grida: – Tutti dietro a me. Avanti ragazzi! -. E con una bomba in bocca ed una in mano si slancia verso i nemici lanciando bombe in mezzo ad essi con una velocità eccezionale e con una precisione eccelsa gridando: – Squadra “A” a destra, fuori le mitraglie pesanti. Squadra “B” a sinistra, fuori i mortai d’assalto -. Siamo uno contro cinquanta. Ma i nemici sono terrorizzati e si sparpagliano in fuga disordinata, inseguiti dai nostri colpi. L’accerchiamento era rotto verso Est, ma nessuno di noi, trascinati dall’audacia di Lanciotto, sentì la voglia di fuggire. Lanciotto in testa raggiunse il comandante della formazione nemica e in una lotta a corpo a corpo lo investe come un uragano, colpendolo alla testa con il calcio della rivoltella e gettandolo a terra. Vandalo, partigiano di vent’anni di Sesto Fiorentino, spara cantando Bandiera rossa, Guglielmo Tesi, Antonio Barinci e tutti gli altri compagni si battono con furia. Ai nemici giungono continuamente rinforzi. Il fuoco accelerato delle armi automatiche ed il miagolio caratteristico delle pallottole fende l’aria. Sembra trovarsi avvolti in una bolgia infernale. Lanciotto, ritto, come sfida alla morte, si lancia verso una mitraglia nemica per catturarla. Ma, a circa dieci metri da essa è colpito da una raffica all’occhio sinistro e rimane fulminato, sono circa le nove e la lotta continua impari.
Testimonianza di Loreno Barinci
Partigiano, ferito in battaglia, catturato
Mentre Lanciotto mi gridava di stare basso, altrimenti sarei stato “beccato”. Quando finalmente gli fui vicino mi disse: – Guarda, se riesco a prendere quella mitragliatrice, forse riusciamo a farcela, e si slanciò generosamente avanti. Era il mio primo combattimento. Dopo pochi istanti sentii la voce di Lanciotto: – Ohi, Mamma! mi hanno preso – e lo vidi cadere a terra. A mia volta gridai: – Ragazzi, ragazzi hanno colpito Lanciotto, ma non finii la parola, perché anch’io in quel momento caddi colpito al viso. Da allora non capii più bene, anche se riuscivo a sentire perfettamente gli spari che ormai continuavano da un bel po’ di tempo.
Testimonianza di Ferdinando Puzzoli
Commissario politico partigiano
Il sangue scorre e le munizioni stanno per finire. I fascisti sentono che sono vicini alla vittoria e poi sentono che abbiamo cessato di sparare. Sentiamo che gridano – Avanti, cosa aspettiamo, non hanno più munizioni -. Ma forse la loro viltà ed il nostro comportamento non danno loro il coraggio di avanzare. Il terreno è sparso di morti, dei loro morti. Il capitano inglese Carlino, a circa trenta metri dietro di me, mi grida: – Nando indietro, altrimenti ci catturano – Ordino la ritirata e faccio passare avanti tutti. Mi sento come inchiodato al terreno. Vorrei portar via Lanciotto. Il mio più caro fratello e compagno adorato. Ho il cuore infranto. E’ stato il più grande dolore della mia vita. Vandalo e Guglielmo mi tirano per le braccia. Raggiungiamo la cima, scollinando verso Vaiano inseguiti dalle raffiche di mitra. So che i fascisti sfogarono la loro libidine di sangue sui feriti e contro le famiglie di coloni dando tutto alle fiamme dopo uno spietato saccheggio. Portarono via anche i bambini di due anni.
Testimonianza di Loreno Barinci
Partigiano, ferito in battaglia, catturato
Passarono 32 ore prima che fossi condotto in ospedale, 32 ore trascorse alternamente tra momenti di incoscienza e di lucidità, che mi permisero di essere testimone dell’asprezza della battaglia e della violenza e ferocia dei repubblichini. Ricordo che mentre ero a terra sanguinante, si avvicinò un ufficiale repubblichino, che disse: – Questo lo conosco perché ha fatto il militare con me – e continuo dicendo – finiamolo subito -. Allora pensai che fosse veramente finita, l’ufficiale prese la pistola e sparò, il proiettile mi sfiorò la nuca, per istinto mi girai bocconi ed essi credettero che fossi morto. Intanto i fascisti cercavano un sovietico (che era stato notato al Cornocchio) che sapevano essere con noi. Vladimiro, che aveva un’infezione ad un piede, era stato preso prigioniero, quando sentii i militari domandare ai prigionieri chi fosse il russo, rispose: – Sono io -. A questo punto i fascisti dissero: – Allora tu sei comunista. – Certo – rispose: – Sono comunista -, e gli spararono uccidendolo. Io potei sentire soltanto la conversazione e lo sparo. Dopo caddi nuovamente in stato di incoscienza (solo in seguito, in ospedale seppi della morte del povero Ventroni, che fu trovato carbonizzato mentre stringeva ancora la mitraglia e della rappresaglia che i contadini dovettero subire dopo la battaglia). Ripresi conoscenza alcune ore dopo, quando il sole era già alto, a fatica procedendo a carponi mi trascinai fino alla casa del contadino Fusi. Le donne vedendomi arrivare in quelle condizioni si impressionarono: – ero in uno stato veramente pietoso, tanto che non potevo parlare, un braccio ed una gamba mi si erano parzialmente paralizzati. Furono loro che mi prestarono le prime cure e mi dettero del latte. La famiglia Fusi si rese conto che non poteva tenermi in casa, perché nel caso fossero tornati i repubblichini avrebbero subito gravi rappresaglie. Mi portarono da dove ero venuto, mi sistemarono in una stanza su un materasso di foglie, promettendomi che al mattino sarebbero venuti a prendermi. Rimasi solo, cominciava già a farsi buio. Io iniziavo a delirare. Durante la notte iniziò a nevicare. Mi trascinai fuori e cominciai a vagare, vidi i corpi del tenente Vladimiro e del comandante Lanciotto. Mi impressionai, mi venne un giramento di testa e caddi tra la neve (l’estrema temperatura esterna coagulò le ferite del Barinci, così ebbe la fortuna di salvarsi, altrimenti sarebbe morto dissanguato). La mattina mi trascinai ancora una volta alla casa del Fusi. Appena mi videro, mi presero in braccio e mi portarono dentro al caldo, mi fecero bere del caffè bollente. Intanto la moglie del contadino vide arrivare i carabinieri e mi propose di consegnarmi a loro. Io concordai, pensando di essere trattato meglio da loro che non dai fascisti e mi trasportarono dentro una abetina che era poco distante dalla loro abitazione. Fra gli alberi il tempo non passava mai, ero tutto infreddolito, mi spostai fuori dell’abetina al sole. Finalmente fui avvistato, ma non erano carabinieri, bensì repubblichini alla ricerca dei partigiani scampati alla battaglia. Addosso non avevo altre armi che un coltello. I repubblichini iniziarono ad avanzare con i mitra ed i moschetti puntati verso di me, io naturalmente non mi potevo muovere. Il tenente mi domandò – Perché ti trovi qui? Come mai non ti hanno portato via ieri? Non c’era posto? Io feci cenno di si. Il tenente continuò – Dove sei stato fino ad ora? Sempre qui? – ed aggiunse – ti porteremo via noi? -; così mi misero a basto di una ciuca che avevano preso al Fusi assieme a dei prosciutti e ci incamminammo verso Calenzano. Strada facendo incontrammo una casa colonica dove abitava un certo Taiti. Io chiesi da bere, una donna uscita di casa dette da bere a tutti, però a me, vedendomi ferito, offrì dell’acquerello che mi fece veramente bene, mentre ai repubblichini aveva dato solo acqua. Questo fatto fece imbestialire i fascisti che rimproverarono a quella donna di avere trattato un “ribelle” meglio di loro, dopo averle incendiato la casa per punizione, mi costrinsero a seguirli di nuovo. Per la strada ad un milite cadde una bomba a mano del tipo “Balilla” che lui si divertiva a maneggiare. Questa esplose ferendolo al viso. I repubblichini si imbestialirono di nuovo ed io ne feci le spese: fecero salire al mio posto, sulla ciuca, il milite ferito (leggermente) e mi picchiarono con calci. Arrivati a Carraia, chiesi di nuovo da bere, ma ricevetti un’altra razione di calci. Qui decisero di portarmi a Calenzano e di fucilarmi in piazza per dare un esempio alla popolazione. Iniziarono immediatamente i preparativi. Nel frattempo arrivò una pattuglia tedesca, che mi sottrasse alle loro mani, penso che preferivano avermi vivo con la speranza di raccogliere informazioni sulle attività partigiane. Mi fecero salire su un camion carico di carabinieri per condurmi all’ospedale di Prato. Dovetti salire da solo in quanto i carabinieri non intendevano aiutarmi. Nello sforzo mi venne una nuova emorragia e sporcai di sangue alcuni di loro, ed essi arrabbiati mi ributtano di sotto. Come arrivai all’ospedale ricordo che un dottore figlio di un noto avvocato fascista, si oppose che il Professore mi medicasse, perché io ero considerato un ribelle, cioè un bandito. Il Professore rispose fermamente che lui avrebbe medicato in egual misura chiunque avesse avuto bisogno di cure.
Testimonianza di Dario Fusi,
Mezzadro di Casenuove di Valibona
La mattina del 3 gennaio 1944 ci si sveglia e si sente questo grande combattimento: botti, scoppi da tutte le parti. Subito vidi arrivare verso casa un branco di fascisti tutti impauriti che berciavano: – ci ammazzano tutti, ci hanno accerchiato – e volevano sapere dove era la strada per Prato, volevano mettersi in salvo. Io gli insegnai la strada e poi mi riaffacciai sull’aia e vidi altri repubblichini, uno lo vidi cadere a terra (forse il famoso fascista Sanesi). Questi vennero da me, mi chiesero una balla e dei bacchi per fare una barella e portare il ferito fino a Prato. Intanto a Valibona il combattimento continua ancora. Verso mezzogiorno si presentano da me due giovani repubblichini con il moschetto puntato mi fecero attaccare le vacche al carro e mi fecero andare là dove c’era stata la battaglia. Per la strada vidi il Barinci (lo conoscevo da ormai cinque giorni) era appoggiato a dei sacchi al muro con le gambe allungate sulla strada. I due repubblichini volevano che gli montassi sopra con il carro. Io gli dissi di scansarlo, che non gli sarei passato sopra. Arrivati, mi fecero caricare sul carro un tenente repubblichino ed un carabiniere che portai fino alla Briglia. Verso sera tornai a casa e le donne e mio fratello mi dissero che avevano portato via tutte le bestie da Valibona ed avevano portato via anche i partigiani legati con delle corde a dorso nudo. Poi arrivo il Barinci, che pena, non so proprio come abbia fatto a campare, nelle condizioni che era: tutto pieno di sangue alla bocca, alla gola era tutto gonfio. Purtroppo noi non si poteva in nessun modo tenere in casa questo partigiano perché i fascisti ci avrebbero ammazzato tutti. Si pensò di portarlo nel vincolo della forestale, un posto sottostante tra i pini. Quando i repubblichini trovarono il Barinci, gli domandarono dove era stato e chi lo aveva aiutato, lui non rispose. Ma in quel momento eccoti arrivare i carabinieri di Calenzano in casa mia: – mani in alto! – Entrarono, frugarono dappertutto e poi vollero anche mangiare. Finito di mangiare vollero essere guidati nel luogo del combattimento per vedere se ritrovavano il maresciallo che non era ancora rientrato. Quando arrivai a Valibona, vidi che c’erano ancora repubblichini, venuti dalla parte di Carraia, che continuavano a portar via roba dalle case bruciate. Il maresciallo lo si trovò distante 400 metri dalle case. Era morto dentro una fossa. Fu subito portato via. Intanto io vedevo bruciare le case di quei contadini che avevano già portato via il giorno prima senza risparmiare nessuno: grandi, piccini, vecchi ed anche una donna incinta. Avevano bruciato tutto, anche il grano…
Nella Piana, si udirono i combattimenti, e giunse la sventurata notizia ai familiari di Lanciotto e alla giovane moglie Carolina Cirri. Le autorità fasciste, sotto la pressione del podestà Icilio Boretti, (preoccupato perché gli animi delle genti si stavano infiammando) dopo cinque lunghi giorni concedono il permesso di recarsi a Valibona al padre e ai fratelli di Lanciotto per recuperare il corpo del loro congiunto. La salma del Comandante viene trasportata a Campi, nella sua casa, in Via S. Giorgio al numero 10, quando il camion con alla guida Fiorenzo Fratini arriva nella via, una folla commossa gli si stringe intorno accogliendo l’eroe partigiano. I fascisti cercarono di imporre il trasporto della salma al cimitero a mezzanotte, senza bara, e vietarono al priore Don Conti della parrocchia di S. Lorenzo d’accogliere la salma in chiesa. Lanciotto anche da morto incute paura ai fascisti, i quali cercano di impedire una partecipazione di massa alle esequie. All’ora del trasporto i fascisti formarono un cordone intorno a via S. Giorgio, in molti riuscirono a evitare il controllo ed a passare dal retro dell’abitazione (anche la cassa funebre fatta preparare a Sesto Fiorentino), gli amici di sempre rendono omaggio al loro valoroso compagno). Il corteo funebre è vietato, ad attendere la salma di Lanciotto al Cimitero quel sabato 8 gennaio 1944, c’era – “Il mondo” – ricorda Carolina: – “un’incredibile folla di persone commosse con tanti fiori rossi,” – tanti partigiani armati scesi dalle montagne, molte le corone di fiori, tutti gli antifascisti rendono omaggio al comandante partigiano. A dispetto delle minacce fasciste Don Conti celebra il rito funebre. I fascisti non hanno il coraggio di intervenire.
Lanciotto Ballerini
Comandante Partigiano, ucciso in Battaglia a Valibona
Lanciotto Ballerini, nasce il 15 agosto 1911 a Campi Bisenzio. I Ballerini sono una famiglia numerosa, sei fratelli (Bertino, Vittorio, Alfredo, Lanciotto, Romolo e Renzo) ed una sorella Gilda, la più piccola. Alfredo Ballerini padre, si occupa dell’attività di macellazione e di commercio carni, specialmente di ovini, ben presto diviene il mestiere di tutta la famiglia. Poco dopo la nascita di Lanciotto, i Ballerini hanno ereditato una piccola casa nel cosidetto “Piazzone”, oggi Piazza Lanciotto Ballerini. L’infanzia di Lanciotto è come quella di tanti suoi coetanei, vita di campagna, lavoro e scuola. Da giovanissimo Lanciotto mostra eccellenti dote fisiche, è alto e fortissimo e si avvicina allo sport del pugilato. Lanciotto si segnala quasi da subito come uno dei migliori allievi. Inizia così una ricca parentesi sportiva, che lo vede incontrarsi con grandi nomi del pugilato dell’epoca, ma, questa bella parentesi sportiva si chiude con la chiamata alle armi nel 1931, dove presta il servizio militare in Emilia. Dopo aver finito il militare ritorna a casa e dopo pochi anni viene richiamato alle armi, per una guerra vera, quella in Etiopia. La vita di militare in Etiopia per Lanciotto è contrassegnata da atti di eroismo e punizioni, il suo carattere generoso ed altruista è anche poco disponibile a tollerare i comandi e la disciplina militare.
Testimonianza di Arnoldo Mechini, amico di Lanciotto
(racconto di un’esperienza in Etiopia)
Un atto di valore gli valse la proposta di promozione a sergente e vale la pena di raccontarlo: c’erano tre soldati italiani a lavarsi in un fiume, fra loro un campigiano, un certo Rossi di S. Cresci. Poco più in là Lanciotto, la cui attenzione venne richiamata dalla cantilena di guerra africana; Lanciotto impugnò subito il fucile ed ecco infatti che dal cespuglio balzo fuori un africano armato di scimitarra per aggredire i soldati al fiume. Lanciotto sparò subito, salvando la vita ai compagni. La sua promozione a sergente però non ebbe seguito perché, dopo poco vene punito per aver diviso il pane con compagni di grado inferiore, cosa mal tollerata dalle gerarchie militari del campo.
A Lanciotto viene subito offerta la tessera fascista, ma Lanciotto per le sue idee di libertà, di uguaglianza, di democrazia e la sua avversione alle gerarchie, la rifiuta, perdendo così la possibilità di trovare lavoro e sicurezza per sé e per la sua famiglia. I Ballerini sono segnalati come antifascisti e in più c’è quella grande amicizia sospetta con il sovversivo Nandino. Il 5 aprile 1937 Lanciotto sposa Carolina Cirri, una ragazza di S. Giorgio che gli darà ben presto una figlia, Amapola. Nell’aprile del 1939 Mussolini decide di occupare l’Albania. Lanciotto viene richiamato per quest’avventura. Nel maggio 1939 con la definitiva entrata in guerra dell’Italia, Lanciotto è chiamato a combattere in Grecia ed in Iugoslavia, in questo periodo tramite alcune testimonianze, pare che Lanciotto abbia avuto buoni rapporti con i partigiani iugoslavi, pur facendo parte dell’esercito invasore, la sua scelta di campo è maturata. Alla notizia dell’8 settembre 1943, Lanciotto si trova a Firenze ricoverato all’Ospedale militare, da lì fugge e torna a Campi Bisenzio decidendo di disertare, sapendo già cosa fare. Lanciotto insieme ad altri compagni locali, entrarono in azione in quei primi giorni di ribellione, assaltando un carro armato fascista che transitava nell’Osmannoro, presso la località detta “Casa bianca” (nucleo di case vicino motorizzazione). Dopo aver fatto correre a gambe levate i carristi disarmati, resero inutilizzabile il carro armato prelevando anche tutto ciò che poteva essere utile, oltre ai proiettili, le armi e la mitragliatrice che era sopra al carro armato. Così Lanciotto si procurò la prima mitragliatrice che portò con sé alcuni giorni dopo in montagna. All’imbrunire del 15 settembre 1943 il Gruppo d’assalto Garibaldi Comandato da Lanciotto Ballerini con il Commissario Politico Ferdinando Puzzoli, con Bruno Verdiani, Renzo Ballerini, Tesi Guglielmo, ed altri circa 10/12 compagni di Campi Bisenzio, partono dalla Casa colonica di Serafino Colzi a Tomerello e risalendo il Torrente Marina giungono a Monte Morello.
Testimonianza di Danilo Ruzzante
Partigiano del gruppo “Lupi Neri”
A Valibona, sì, siamo stati tutti eroi, dai morti ai feriti, dai prigionieri a quelli che sono riusciti a scappare, perché non è stato facile da come eravamo circondati. Tutto questo grazie al poderoso e coraggioso Lanciotto, che aprì un varco. Uomo di una potenza fisica eccezionale che non saprei come definire e, nello stesso tempo, molto buono e comprensivo. Racconto un episodio. Dopo il fatto del Cornocchio con il russo Vladimir, non volle più che andassi in perlustrazione e io chiesi il perché. “Perché mi servi qui”, disse Lanciotto. Un giorno lui partì con altri compagni e, quando tornò, aveva i calzoni strappati. Io, avendo il padre sarto e sapendo un po’ cucire, glieli rammendai alla meglio. Lanciotto si alzò, mi baciò e mi disse: “Ecco perché tu servi qui”. Lo disse forse per non farmi pesare il fatto che mi lasciava alla base, ma era la mia giovane età che lo preoccupava. Di Nandino, da me chiamato “Nando il giornalista” perché aveva sempre il giornale in tasca, si diceva che fosse la mente del gruppo, ma con noi parlava poco. Quando fummo circondati, si aprì un varco per poter fuggire. Scappando, forse in salita per quel che ricordo, trovai il Barinci che sparava, non ancora ferito. Ma quando mi voltai lo vidi colpito alla faccia, immobile come morto. Approfittando di un attimo di tregua, riuscii a mettermi in salvo. Arrivato in cima alla collinetta trovai Nandino (Ferdinando Puzzoli) che mi disse: “Andiamo via”. Percorrendo una strada a me sconosciuta, nascondemmo le armi e infreddoliti perché scalzi e poco vestiti arrivammo a La Quercia. Non ricordo se fosse una cascina o cos’altro, comunque trovammo gente ospitale. “Resta qui due o tre giorni. Poi qualcuno verrà a prenderti” mi disse Nandino. Una signora sui quaranta-cinquant’anni mi diede dei vestiti, mi fece mangiare e mi tolse tutte le spine dai piedi. Vennero a prendermi tre o quattro giorni dopo, non ricordo con esattezza chi. Ricordo invece che attraversammo una strada provinciale e arrivammo a piedi a Campi Bisenzio. Lì mi spiegarono quello che era accaduto e io rimasi sconvolto, sconvolto e addolorato per la perdita di tanti cari amici tra i quali, direi quasi il mio secondo padre, Lanciotto. Mi consigliarono di far ritorno a casa, essendo giovane sarei passato inosservato, e così fu. Giunto a casa ricominciai a combattere, formammo una Brigata, la “Bruno Ruttoli”.
Testimonianza di Benito Guzzon
Partigiano catturato, percosso.
La giornata del 3 gennaio 1944, iniziò presto. Io e tutti i miei compagni stavamo dormendo nel fienile di una cascina in Valibona, quando siamo stati svegliati da un grido. Sul momento non ho capito bene quale fosse la causa ma, aprendo gli occhi, vidi un faro che illuminava la porta sul davanti del fienile, e sentii distintamente una voce che gridava: “Fuori tutti a mani in alto”. Io, il Conti ed altri compagni eravamo a poca distanza dalla porta posteriore. Vicino a quella sul davanti, c’era il sardo Ventroni armato di fucile mitragliatore; pochi metri più indietro c’erano Lanciotto, il commissario politico con altri compagni, fra i quali, se non ricordo male c’era anche Carlino. Erano già stati svegliati dal russo Mirko che aveva dato l’allarme dato che, uscito per un bisogno corporale, aveva notato che alcune persone si stavano dirigendo nella nostra direzione. Nello stesso momento che sentii gridare “Fuori tutti a mani in alto”, Lanciotto che nel frattempo si era avvicinato alla porta, iniziò a sparare, uccidendo l’ufficiale fascista che ci aveva intimato la resa. Da quel momento successe il finimondo. Iniziò a sparare anche Ventroni con il fucile mitragliatore, dopo un po’ una sventagliata di mitra lo colpì uccidendolo. Lanciotto e gli altri sparando e lanciando bombe a mano, fecero indietreggiare i fascisti, e, uscendo allo scoperto, riuscirono ad eliminare i militi che si trovavano davanti al fienile. Vidi poi Lanciotto che lanciando bombe a mano correva lungo il pendio verso una postazione di mitragliatrice fascista riuscendo a neutralizzarla, rompendo così l’accerchiamento sul davanti. Quell’azione temeraria gli costò la vita. Nel frattempo io e gli altri partigiani, sparando e lanciando bombe a mano anche noi, uscimmo dalla porta posteriore prendendo posizione dietro ad un muretto e ad un pozzo. Eravamo armati solo di moschetti e bombe a mano ma per far credere ai fascisti che avevamo armi pesanti, cinque o sei dei miei compagni si erano messi a fianco, sparando in sequenza uno dietro l’altro, come se si trattasse della raffica di una mitragliatrice. Io e il Conti invece, da dietro il muro del pozzo, lanciavamo verso una postazione fascista delle bombe a mano, ad intervalli regolari, come se fossero lanciate da un mortaio. Durò circa un paio d’ore poi i miei compagni iniziarono a sganciarsi cercando di ritirarsi attraverso il varco aperto da Lanciotto. Io e un russo Vladimir per proteggere la ritirata dei nostri compagni, abbiamo lasciato per ultimi la postazione ma trovandoci completamente accerchiati e senza munizioni, siamo stati costretti ad arrenderci. Ci portarono sul davanti del fienile: la scena che vedemmo fu terribile. C’erano diversi fascisti morti ed in mezzo a loro vidi Lanciotto che stava per morire: una mano si era mossa per pochi secondi, poi rimase inerte senza dare più segno di vita. A pochi passi da lui vidi anche il Barinci, con la testa tutta insanguinata e pensai che anche lui fosse morto; a poca distanza c’era un altro morto (il sardo Ventroni). Fummo consegnati ai militi che spararono in bocca a Vladimir uccidendolo; mentre l’altro stava per fare lo stesso con me il capo gli diede una spinta intimandogli di lasciarmi per interrogarmi ma dal mitra partì ugualmente un colpo che mi sfiorò la testa. Mi fecero spogliare, mi legarono le mani dietro la schiena, mi gettarono per terra e se ne andarono, lasciando di guardia un ragazzino in divisa che giocherellando con un pugnale mi diceva: “Ora ti leviamo gli occhi e poi ti impicchiamo”. Dopo un po’ prendemmo la strada per Prato e davanti al Castello dell’Imperatore, dove c’era la caserma dei fascisti, ci misero al muro per fucilarci, ma con un contrordine ci portarono in caserma per interrogarci, dove seduto dietro ad un tavolino c’era un gerarca fascista; al suo fianco, in piedi, due energumeni che facevano paura solo a guardarli. Ci misero contro una parete della stanza e, legati ad una sedia, ci massacrarono di botte perché volevano sapere dove avevamo nascosto le mitragliatrici e i mortai. Noi rispondevamo che si era trattato di uno stratagemma, ma loro non ci credevano. A un certo punto, per fortuna, da un campanile si sentì suonare mezzogiorno e allora il comandante disse: “Per adesso basta così; portateli via, continueremo dopo pranzo”. Dalla cella dove eravamo chiusi, ogni tanto si sentiva qualcuno gridare dal dolore: forse lo stavano torturando, e quando sentivamo dei passi avvicinarsi alla nostra porta pensavamo che venissero a prenderci per farci la stessa cosa. Intanto le ore passavano e verso le dieci di sera li sentimmo arrivare: in cinque o sei entrarono nella cella. Con i mitra puntati contro la schiena, ci portarono nel cortile mettendoci in fila contro il muro: “Li fuciliamo qui o li portiamo contro il muro all’esterno così domani mattina li vedono?”. All’esterno del Castello dell’Imperatore ci misero per la terza volta contro il muro. Non sappiamo cosa successe ma, come nei film, all’ultimo momento, arrivò la salvezza nelle vesti di un portaordini motociclista che consegnò un foglio all’ufficiale che comandava i militi. Questi diede ordine di farci salire su una camionetta carica di fascisti, che partì per una destinazione a noi ignota. Dopo un tempo infinito che si viaggiava, la camionetta si fermò e i fascisti ci fecero scendere in un cortile: eravamo alla Fortezza da Basso di Firenze dove fummo consegnati ai tedeschi. Così alle undici di sera del 3 gennaio 1944, finì quella lunghissima giornata.
IMPRONTE DEL NOSTRO ESSERE ANTIFASCISTI E RESISTENTI
Prodotto e realizzato per la Ricorrenza del 60° della Battaglia di Valibona
Edizione a cura dell’A.N.P.I. locale; grafica e testi di Fulvio Conti
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Foto e testimonianze tratte dall’ archivio A.N.P.I. Campi Bisenzio